Realtà digitali #10: Verso un nuovo socialismo digitale?

Kevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitaleKevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitaleKevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitale

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.
Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.
La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]
[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.

Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.

La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]

[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.

Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.

La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]

[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Realtà digitali #9: Vademecum per i politici che usano internet

Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web.

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.
Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.
La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.
Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.
Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.
“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.
La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]
[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Modernity 2.0 a Urbino con danah boyd

Dal 29 giugno al 5 luglio si terrà ad Urbino, per la prima volta in Italia, la nona conferenza mondiale di sociocibernetica. La conferenza che verrà come protagonisti ricercatori provenienti da tutto il mondo è dedicato a riflettere sull’impatto dei social media sulla nostra società.Dal 29 giugno al 5 luglio si terrà ad Urbino, per la prima volta in Italia, la nona conferenza mondiale di sociocibernetica. La conferenza che verrà come protagonisti ricercatori provenienti da tutto il mondo è dedicato a riflettere sull’impatto dei social media sulla nostra società.Dal 29 giugno al 5 luglio si terrà ad Urbino, per la prima volta in Italia, la nona conferenza mondiale di sociocibernetica. La conferenza che verrà come protagonisti ricercatori provenienti da tutto il mondo è dedicato a riflettere sull’impatto dei social media sulla nostra società.

Ho il piacere di annunciare oggi un progetto al quale sto lavorando da tempo ma di cui non ho mai parlato fino a questo momento qui.
Da alcuni mesi il LaRiCA sta collaborando attivamente con i colleghi dell’RC51 dell’International Sociological Association all’organizzazione della nona conferenza mondiale di socio-cibernetica che avremo il piacere di ospitare dal 29 giugno al 5 luglio ad Urbino.
Il tema scelto è l’impatto dei social media sulla nostra società. Con il termine social media si fa riferimento a tutti quelli spazi della comunicazione supportati dalle recenti tecnologie internet che consentono di produrre e diffondere contenuti (testi, video, audio, etc.) in rete a costi contenuti. L’abbassamento dei costi legati alla produzione e diffusione di questi contenuti ha democratizzato l’accesso alla comunicazione da uno a molti un tempo riservati ai professionisti del settore. La produzione spesso collaborativa di questi contenuti e l’esposizione ai contenuti prodotti dai pari sta cambiano la dieta mediale degli individui e incrinando i rapporti di potere consolidati all’interno della società (nelle famiglie, nelle scuole, fra imprese e consumatori, fra cittadini ed istituzioni, fra giornalisti e lettori).
Esempi di social media sono dunque i blog, YouTube e Facebook.
Modernity 2.0 è dedicata a riflettere in una prospettiva socio-cibernetica su come e se la disponibilità di queste tecnologie sta cambiando le persone e la nostra società.
La conferenza è un evento inedito in Italia per dimensione, tematiche e rilevanza dei relatori proposti.
La call for paper ha infatti attratto proposte di intervento provenienti da tutto il mondo. Fra queste sono stati selezionati cinquantuno papers suddivisi poi nelle seguenti aree tematiche: “Cultura convergente e Pubblici connessi”, “Media, politica e potere”, “Metodologie emergenti”, “Studi di media comparati”.
Fra i paper verso i quali nutro maggiormente attesa segnalo un paio di casi di studio su Obama ed un inedito Bebbe Grillo osservato dagli Stati Uniti (Alberto Pepe, University of California Los Angeles e Corinna di Gennaro, Harvard University).  Mi incuriosice inoltre parecchio Structure and Dynamics of Indonesian Blogger Community in Virtual Space di Adi Nugroho Onggoboyo. Se siete curiosi potete cmq leggere tutti gli abstract nella pagina papers del sito ufficiale del convegno.
Si ritroveranno ad Urbino ricercatori che studiano questo fenomeno provenienti da tutto il mondo: Messico, Armenia, Austria, UK, Lettonia, Svezia, Bolivia, Stati Uniti, Germania, Olanda, Canada, Spagna, Indonesia, Danimarca, Brasile, Argentina ed ovviamente Italia.
A completare il programma ci sono due ospiti invitati che nei loro rispettivi settori sono comunemente considerati fra i massimi esperti dalle rispettive comunità accademiche.
danah boyd (Microsoft Research New England)
Ricercatrice presso Microsoft Research New England e Fellow dell’Harvard Berkman Center for Internet and Society. PhD presso la School of Information at UC-Berkeley con una tesi intitolata “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” nella quale ha esaminato il ruolo giocato dai siti di social network come MySpace e Facebook nella vita quotidiana e sulle relazioni social dei teenagers americani. Presso il Berkman Center, danah ha co-diretto l’Internet Safety Technical Task Force il suo scopo è identificare potenziali soluzioni per favorire un uso sicuro della rete da parte dei bambini.

Giuseppe O. Longo (Università degli Studi di Trieste)
Giuseppe O. Longo è ordinario di Teoria dell’informazione alla Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Trieste. Ha introdotto in Italia la teoria dell’informazione. Attualmente si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenza artificiale, di problemi della comunicazione e delle conseguenze sociali dello sviluppo tecnico, in particolare di robo-etica, pubblicando articoli su riviste specializzate e svolgendo un’intensa attività di conferenziere. Su questi temi ha tenuto numerose relazioni, ha partecipato a convegni e congressi e ha pubblicato i saggi “Il nuovo Golem: come il computer cambia la nostra cultura” (Laterza, 1998, 4a edizione 2003), “Homo Technologicus” (Meltemi, Roma, 2001, 2a edizione 2005) e “Il simbionte: prove di umanità futura” (Meltemi, Roma, 2003). E’ stato traduttore per le case editrici Boringhieri e Adelphi (15 libri dall’inglese e dal tedesco, tra cui opere di Gregory Bateson, Marvin Minsky, Douglas Hofstadter, Iräneus Eibl-Eibesfeld) e nel 1991 ha vinto il premio “Monselice” per la traduzione scientifica.
La conferenza è organizzata da un comitato internazionale presieduto dal Prof. Bernard Scott (Cranfield University Defence Academy e Presidente della sezione RC51 dell’ISA – International Sociological Association dedicata alla socio-cibernetica). Il comitato è composto da membri dell’RC51 e da docenti e ricercatori del laboratorio di Ricerca LaRiCA dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
La registrazione per la conferenza chiude domenica 24 maggio.
Potete registrarvi o leggere i nomi delle persone che intendono partecipare a http://rc51.eventbrite.com/.

Ho il piacere di annunciare oggi un progetto al quale sto lavorando da tempo ma di cui non ho mai parlato fino a questo momento qui.

Da alcuni mesi il LaRiCA sta collaborando attivamente con i colleghi dell’RC51 dell’International Sociological Association all’organizzazione della nona conferenza mondiale di socio-cibernetica che avremo il piacere di ospitare dal 29 giugno al 5 luglio ad Urbino.

Il tema scelto è l’impatto dei social media sulla nostra società. Con il termine social media si fa riferimento a tutti quelli spazi della comunicazione supportati dalle recenti tecnologie internet che consentono di produrre e diffondere contenuti (testi, video, audio, etc.) in rete a costi contenuti. L’abbassamento dei costi legati alla produzione e diffusione di questi contenuti ha democratizzato l’accesso alla comunicazione da uno a molti un tempo riservati ai professionisti del settore. La produzione spesso collaborativa di questi contenuti e l’esposizione ai contenuti prodotti dai pari sta cambiano la dieta mediale degli individui e incrinando i rapporti di potere consolidati all’interno della società (nelle famiglie, nelle scuole, fra imprese e consumatori, fra cittadini ed istituzioni, fra giornalisti e lettori).

Esempi di social media sono dunque i blog, YouTube e Facebook.

Modernity 2.0 è dedicata a riflettere in una prospettiva socio-cibernetica su come e se la disponibilità di queste tecnologie sta cambiando le persone e la nostra società.

La conferenza è un evento inedito in Italia per dimensione, tematiche e rilevanza dei relatori proposti.

La call for paper ha infatti attratto proposte di intervento provenienti da tutto il mondo. Fra queste sono stati selezionati cinquantuno papers suddivisi poi nelle seguenti aree tematiche: “Cultura convergente e Pubblici connessi”, “Media, politica e potere”, “Metodologie emergenti”, “Studi di media comparati”.

Fra i paper verso i quali nutro maggiormente attesa segnalo un paio di casi di studio su Obama ed un inedito Bebbe Grillo osservato dagli Stati Uniti (Alberto Pepe, University of California Los Angeles e Corinna di Gennaro, Harvard University).  Mi incuriosice inoltre parecchio Structure and Dynamics of Indonesian Blogger Community in Virtual Space di Adi Nugroho Onggoboyo. Se siete curiosi potete cmq leggere tutti gli abstract nella pagina papers del sito ufficiale del convegno.

Si ritroveranno ad Urbino ricercatori che studiano questo fenomeno provenienti da tutto il mondo: Messico, Armenia, Austria, UK, Lettonia, Svezia, Bolivia, Stati Uniti, Germania, Olanda, Canada, Spagna, Indonesia, Danimarca, Brasile, Argentina ed ovviamente Italia.

A completare il programma ci sono due ospiti invitati che nei loro rispettivi settori sono comunemente considerati fra i massimi esperti dalle rispettive comunità accademiche.

danah boyd (Microsoft Research New England)

Ricercatrice presso Microsoft Research New England e Fellow dell’Harvard Berkman Center for Internet and Society. PhD presso la School of Information at UC-Berkeley con una tesi intitolata “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” nella quale ha esaminato il ruolo giocato dai siti di social network come MySpace e Facebook nella vita quotidiana e sulle relazioni social dei teenagers americani. Presso il Berkman Center, danah ha co-diretto l’Internet Safety Technical Task Force il suo scopo è identificare potenziali soluzioni per favorire un uso sicuro della rete da parte dei bambini.

Giuseppe O. Longo (Università degli Studi di Trieste)

Giuseppe O. Longo è ordinario di Teoria dell’informazione alla Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Trieste. Ha introdotto in Italia la teoria dell’informazione. Attualmente si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenza artificiale, di problemi della comunicazione e delle conseguenze sociali dello sviluppo tecnico, in particolare di robo-etica, pubblicando articoli su riviste specializzate e svolgendo un’intensa attività di conferenziere. Su questi temi ha tenuto numerose relazioni, ha partecipato a convegni e congressi e ha pubblicato i saggi “Il nuovo Golem: come il computer cambia la nostra cultura” (Laterza, 1998, 4a edizione 2003), “Homo Technologicus” (Meltemi, Roma, 2001, 2a edizione 2005) e “Il simbionte: prove di umanità futura” (Meltemi, Roma, 2003). E’ stato traduttore per le case editrici Boringhieri e Adelphi (15 libri dall’inglese e dal tedesco, tra cui opere di Gregory Bateson, Marvin Minsky, Douglas Hofstadter, Iräneus Eibl-Eibesfeld) e nel 1991 ha vinto il premio “Monselice” per la traduzione scientifica.

La conferenza è organizzata da un comitato internazionale presieduto dal Prof. Bernard Scott (Cranfield University Defence Academy e Presidente della sezione RC51 dell’ISA – International Sociological Association dedicata alla socio-cibernetica). Il comitato è composto da membri dell’RC51 e da docenti e ricercatori del laboratorio di Ricerca LaRiCA dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

La registrazione per la conferenza chiude domenica 24 maggio.

Potete registrarvi o leggere i nomi delle persone che intendono partecipare a http://rc51.eventbrite.com/.

Ho il piacere di annunciare oggi un progetto al quale sto lavorando da tempo ma di cui non ho mai parlato fino a questo momento qui.

Da alcuni mesi il LaRiCA sta collaborando attivamente con i colleghi dell’RC51 dell’International Sociological Association all’organizzazione della nona conferenza mondiale di socio-cibernetica che avremo il piacere di ospitare dal 29 giugno al 5 luglio ad Urbino.

Il tema scelto è l’impatto dei social media sulla nostra società. Con il termine social media si fa riferimento a tutti quelli spazi della comunicazione supportati dalle recenti tecnologie internet che consentono di produrre e diffondere contenuti (testi, video, audio, etc.) in rete a costi contenuti. L’abbassamento dei costi legati alla produzione e diffusione di questi contenuti ha democratizzato l’accesso alla comunicazione da uno a molti un tempo riservati ai professionisti del settore. La produzione spesso collaborativa di questi contenuti e l’esposizione ai contenuti prodotti dai pari sta cambiano la dieta mediale degli individui e incrinando i rapporti di potere consolidati all’interno della società (nelle famiglie, nelle scuole, fra imprese e consumatori, fra cittadini ed istituzioni, fra giornalisti e lettori).

Esempi di social media sono dunque i blog, YouTube e Facebook.

Modernity 2.0 è dedicata a riflettere in una prospettiva socio-cibernetica su come e se la disponibilità di queste tecnologie sta cambiando le persone e la nostra società.

La conferenza è un evento inedito in Italia per dimensione, tematiche e rilevanza dei relatori proposti.

La call for paper ha infatti attratto proposte di intervento provenienti da tutto il mondo. Fra queste sono stati selezionati cinquantuno papers suddivisi poi nelle seguenti aree tematiche: “Cultura convergente e Pubblici connessi”, “Media, politica e potere”, “Metodologie emergenti”, “Studi di media comparati”.

Fra i paper verso i quali nutro maggiormente attesa segnalo un paio di casi di studio su Obama ed un inedito Bebbe Grillo osservato dagli Stati Uniti (Alberto Pepe, University of California Los Angeles e Corinna di Gennaro, Harvard University).  Mi incuriosice inoltre parecchio Structure and Dynamics of Indonesian Blogger Community in Virtual Space di Adi Nugroho Onggoboyo. Se siete curiosi potete cmq leggere tutti gli abstract nella pagina papers del sito ufficiale del convegno.

Si ritroveranno ad Urbino ricercatori che studiano questo fenomeno provenienti da tutto il mondo: Messico, Armenia, Austria, UK, Lettonia, Svezia, Bolivia, Stati Uniti, Germania, Olanda, Canada, Spagna, Indonesia, Danimarca, Brasile, Argentina ed ovviamente Italia.

A completare il programma ci sono due ospiti invitati che nei loro rispettivi settori sono comunemente considerati fra i massimi esperti dalle rispettive comunità accademiche.

danah boyd (Microsoft Research New England)

Ricercatrice presso Microsoft Research New England e Fellow dell’Harvard Berkman Center for Internet and Society. PhD presso la School of Information at UC-Berkeley con una tesi intitolata “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” nella quale ha esaminato il ruolo giocato dai siti di social network come MySpace e Facebook nella vita quotidiana e sulle relazioni social dei teenagers americani. Presso il Berkman Center, danah ha co-diretto l’Internet Safety Technical Task Force il suo scopo è identificare potenziali soluzioni per favorire un uso sicuro della rete da parte dei bambini.

Giuseppe O. Longo (Università degli Studi di Trieste)

Giuseppe O. Longo è ordinario di Teoria dell’informazione alla Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Trieste. Ha introdotto in Italia la teoria dell’informazione. Attualmente si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenza artificiale, di problemi della comunicazione e delle conseguenze sociali dello sviluppo tecnico, in particolare di robo-etica, pubblicando articoli su riviste specializzate e svolgendo un’intensa attività di conferenziere. Su questi temi ha tenuto numerose relazioni, ha partecipato a convegni e congressi e ha pubblicato i saggi “Il nuovo Golem: come il computer cambia la nostra cultura” (Laterza, 1998, 4a edizione 2003), “Homo Technologicus” (Meltemi, Roma, 2001, 2a edizione 2005) e “Il simbionte: prove di umanità futura” (Meltemi, Roma, 2003). E’ stato traduttore per le case editrici Boringhieri e Adelphi (15 libri dall’inglese e dal tedesco, tra cui opere di Gregory Bateson, Marvin Minsky, Douglas Hofstadter, Iräneus Eibl-Eibesfeld) e nel 1991 ha vinto il premio “Monselice” per la traduzione scientifica.

La conferenza è organizzata da un comitato internazionale presieduto dal Prof. Bernard Scott (Cranfield University Defence Academy e Presidente della sezione RC51 dell’ISA – International Sociological Association dedicata alla socio-cibernetica). Il comitato è composto da membri dell’RC51 e da docenti e ricercatori del laboratorio di Ricerca LaRiCA dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

La registrazione per la conferenza chiude domenica 24 maggio.

Potete registrarvi o leggere i nomi delle persone che intendono partecipare a http://rc51.eventbrite.com/.

Realtà digitali #8: L’eresia di una cultura convergente

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.
Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.
Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.
La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.
Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.
Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.
Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]
[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]
P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.

Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.

Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.

La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.

Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.

Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.

Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]

[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]

P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.

Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.

Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.

La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.

Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.

Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.

Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]

[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]

P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Realtà digitali #7: Il successo ai tempi della cultura convergente

Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.
Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.
Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.
Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]
[Photo originally uploaded on February 28, 2009 by EssG]

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.

Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.

Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.

Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]

[Photo originally uploaded on February 28, 2009 by EssG]

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.

Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.

Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.

Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]

[Photo originally uploaded on February 28, 2009 by EssG]

Realtà digitali #6: Quando l’Italia scoprì a cosa serve Internet

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.
“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*
“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*
Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.
* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]
[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*

“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*

Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.

* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]

[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*

“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*

Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.

* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]

[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Realtà digitali #5: Cultura della partecipazione da Obama alle comunità locali

Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.
Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.
Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.
Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.
Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.
Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]
[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Realtà digitali #4: L’indipendenza dei media e la nuova sfera pubblica

Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.
Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.
Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.
Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.
Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.
L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.
Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.
Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?
Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]
[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

Realtà digitali #2: Ferrovie, saggezza delle folle e controllo della rete

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.
Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.
Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?
Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.
Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]
[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]