Realtà digitali #5: Cultura della partecipazione da Obama alle comunità locali

Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.
Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.
Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.
Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.
Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.
Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]
[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Realtà digitali #4: L’indipendenza dei media e la nuova sfera pubblica

Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.
Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.
Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.
Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.
Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.
L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.
Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.
Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?
Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]
[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]