Internet in Italia secondo il 9° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione

Internet in Italia secondo il 9° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione

Dal rapporto di sintesi disponibile sul sito Internet del Censis e presentato oggi emerge che:
– crescita dell’utenza di Internet, che nel 2011 supera la soglia del 50% della popolazione italiana, attestandosi per l’esattezza al 53,1% (+6,1% rispetto al 2009). Il dato complessivo si spacca tra l’87,4% dei giovani (14-29 anni) e il 15,1% degli anziani (65-80 anni), tra il 72,2% dei soggetti più istruiti e il 37,7% di quelli meno scolarizzati;
– I siti web di informazione sono usati dal 36,6% degli italiani;
– Il 17,6% degli italiani ha usato uno smartphone almeno una volta a settimana;
– Alla metà del decennio si era verificato un primo importante fenomeno di svuotamento dell’area di quanti si servono di soli strumenti audiovisivi, cioè tv e radio (il 46,6% nel 2002, il 28,2% nel 2006), che aveva portato a uno spostamento sia verso l’area dei fruitori dei mezzi a stampa (che salivano al 42,8%), sia verso quella degli utenti di Internet (al 29%). Da allora si è verificata la crescita dei “digitali” (fino al 48% del 2011), ma solo a discapito dei “lettori” (scesi nel 2011 al 23,3%), non degli “audiovisivi”, che sono rimasti praticamente stabili (il 28,7% nel 2011);
– Una metà del Paese ha dunque compiuto stabilmente il salto oltre la soglia del digital divide. Non si tratta però di una metà omogenea. Si può osservare che il 48% del totale è costituito molto più da uomini (52,5%) che da donne (43,7%), con una netta preponderanza di persone istruite (66,7%) rispetto a quelle con bassi livelli di istruzione (32,8%), per non parlare dei giovani (84,6%) in confronto agli adulti (46,5%) e agli anziani (11,4%);
– I giovani (14-29 anni) vivono abitualmente in rete (l’84,6%), ma sono proprio loro, con una quota del 53,3%, ad abbandonare maggiormente la lettura di testi a stampa. Nel 2009 quest’ultima quota si fermava al 35,8% della popolazione giovanile;
– Persone con diete aperte a Internet, ma prive dei mezzi a stampa 5,7 (2006) | 12,9 (2009) | 17,0 (2011);
– Indipendentemente dall’uso del televisore, il 12,3% della popolazione (24,7 dei giovani 14-29) attinge ai siti Internet delle emittenti tv per seguire i programmi prescelti, il 22,7% (47,6 14-29) utilizza YouTube, il 17,5% (36,2% 14-29) segue programmi scaricati tramite il web da altre persone;
– Preferenze del pubblico che scarica programmi televisivi da Internet. Musica (18,3%), sport (11,7%) e film (9,9%) sono ai vertici dell’interesse complessivo. Scorrendo invece la colonna relativa alle preferenze dei giovani, si può osservare che viene scaricato di tutto e anche con una notevole continuità. La musica rimane sempre al vertice, con il 46,2% di preferenze, seguita dai film (27,1%), dallo sport (25,6%), dalle fiction (21,2%) e poi i cartoni animati (14,3%), la cronaca (13,4%), i reality (11,6%), ma anche gli approfondimenti giornalistici (10%) e i telegiornali (8,7%);
–  Nel mondo dell’informazione, la centralità dei telegiornali è ancora fuori discussione, visto che l’80,9% degli italiani vi fa ricorso come fonte. Tra i giovani, però, il dato scende al 69,2%, avvicinandosi molto al 65,7% raggiunto dai motori di ricerca su Internet e al 61,5% di Facebook;
– Fra le fonti indicate dal pubblico emergono anche i motori di ricerca come Google (41,4%), i siti web di informazione (29,5%), Facebook (26,8%), i quotidiani on line (21,8%). Le “app” per gli smartphone sono al 7,3% di utenza e Twitter al 2,5%;
– Internet è il mezzo di comunicazione considerato più credibile;
– Il 67,8% degli italiani (91,8% 14-29) conosce almeno un social network tra quelli più noti (Facebook, Twitter, Messenger, YouTube, fino a Skype). Si tratta di 33,5 milioni di persone, in crescita rispetto ai 32,9 milioni del 2009. Facebook (65,3%) risulta essere il più conosciuto insieme a YouTube (53%); seguono Messenger (41%), Skype (37,4%) e Twitter (21,3%);
– Facebook è, oltre che il social network più conosciuto, anche tra quelli più utilizzati (dal 49% degli italiani che accedono a Internet, l’88,1% tra i giovani), insieme a YouTube (54,5%, l’86,5% tra i giovani);
– Funzione di Internet maggiormente utilizzata nella vita quotidiana direttamente o per interposta persona: [1] Mappe: 37,9% lo ha fatto almeno una volta nell’ultimo mese (60,5% nei centri con più di 500mila abitanti). [2] Ascoltare musica (26,5%). [3] Home banking (22,5%);
– Effettua telefonate attraverso Internet (tramite Skype o altri servizi voip) il 10,1% degli italiani che si connettono, soprattutto i giovani (14,8%) e le persone più istruite (14,5%);
– L’83,8% del campione (94,1% dei giovani e 87,1% dei soggetti più istruiti) riconosce a Internet il merito di permettere a chiunque di esprimersi liberamente. Al tempo stesso, l’83,3% lamenta il fatto che nel web circola troppa “spazzatura”;
– Per il 76,9% degli italiani (82,9% dei giovani e 81,2% dei soggetti più istruiti) la rete è un potente mezzo al servizio della democrazia.
In estrema sintesi emerge, rispetto a Internet, un paese spaccato in due. Il divario si ritrova costantemente sia a livello generazionale che a livello di titoli di studio. Uno scenario non dissimile da quello che avevamo descritto qualche mese fa con la ricerca LaRiCA sulle news e gli italiani.
Il report di sintesi che contiene dati più completi e riguardanti tutti i mezzi di comunicazione è disponibile gratuitamente sul sito del Censis (previa registrazione).
UPDATE: Sullo stesso tema consiglio la lettura del post con infografica di Vincenzo Cosenza e del commento di Juan Carlos De Martin su La Stampa.

Laboratorio di Web Content

Le presentazioni dei progetti realizzati dagli studenti durante il Laboratorio di Web Content

Come anticipato, questa mattina gli studenti del laboratorio di Web Content, iniziato a novembre dello scorso,  hanno presentato in classe i loro progetti.
Scopo del corso è familiarizzare con gli strumenti di content management per la progettazione, creazione e promozione di contenuti web. Per quest’anno ho proposto agli studenti di realizzare e promuovere progetti web che, sfruttando il principio di non discontinuità fra attività online ed offline, ambissero ad avere un impatto diretto sul territorio locale. Il sistema di content management scelto da tutti i gruppi è stato quello a loro più familiare: Facebook.
Durante il corso ho inoltre sperimentato l’utilizzo dei nuovi gruppi Facebook. Ho creato il gruppo e chiesto agli studenti di aggiungere i loro colleghi (molti dei quali non sono miei Friends). In poco tempo quasi tutti gli studenti erano nel gruppo ed attraverso quello spazio abbiamo mantenuto tutti i contatti extra-lezione (durante l’occupazione ho anche segnalato di volta in volta l’aula e l’edificio che veniva assegnato per il giorno o la settimana successiva). Ogni gruppo ha pubblicato (usando la funzione documenti) il loro progetto che via via veniva completato con la descrizione, l’analisi della concorrenza e le strategie di promozione. Nel gruppo ho pubblicato tutti i documenti utilizzati a lezione dalle presentazioni (condividendo il link da SlideShare) ai link. Nel complesso l’uso del gruppo è stata una esperienza che mi sento di consigliare caldamente ai miei colleghi (sopratutto qualora anche loro abbiano già familiarità con la piattaforma di social network).
Tutti i gruppi hanno scelto autonomamente l’argomento del quale occuparsi che infatti spazia dalla gestione della pagina di un locale o esercizio commerciale fino a contest sull’arte o progetti che promuovono eventi.
Ai gruppi ho proposto anche una specie di competizione interna per vedere chi avrebbe ricevuto, alla fine del corso, il numero maggiore di like (alla fine, per la cronaca, ha vinto il gruppo Cellini Sport che ha raccolto, nel momento in cui scrivo, quasi 799 iscritti a partire dal primo dicembre 2010).
Le presentazioni finali sono state realizzate secondo il format Ignite (20 slide che avanzano automaticamente ogni 15 secondi).
Il risultato potete vederlo qui di seguito:

Fior di Loto
5:34
Daunbailò
5:29
Urbino in Cinema
5:09
Music Events Marche
5:16
Cellini Sport & Fashion
5:13
Palestra Mad
5:13
Tatoo Zone
5:00
Il Portico
5:26
Urbino we Like
5:05

Urbino vetrine in Arte (che ha realizzato la presentazione con Prezi)

La descrizione di tutti i progetti la trovate sulla pagina dedicata sul sito web del laboratorio.

What's next #S02E00: Alice in the box

Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.
Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.
Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.
Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.
Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.
[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]
[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.

Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.

Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.

Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.

Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.

[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]

[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]

[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.

Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.

Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.

Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.

Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.

[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]

[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]

[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

What’s next #11: Prima e seconda generazione dei siti di social network in Italia

I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.


Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.
La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.
Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.
Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.
A seguire il Venezuela.
Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?
Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.
Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.
Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).
Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).
Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.
A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.
La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.
La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).
Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.
In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.
La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.
Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.
Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.
Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.
Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.
Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

What's next #4: Dietro le quinte di "conversazioni dal basso"

Nelle puntante precedenti di “Conversazioni dal Basso”….
In occasione del secondo compleanno del Festival dei Blog facciamo il punto su successi e fallimenti di un format sperimentale per l’organizzazione di eventi su e con il web.Nelle puntante precedenti di “Conversazioni dal Basso”….
In occasione del secondo compleanno del Festival dei Blog facciamo il punto su successi e fallimenti di un format sperimentale per l’organizzazione di eventi su e con il web.Nelle puntante precedenti di “Conversazioni dal Basso”….
In occasione del secondo compleanno del Festival dei Blog facciamo il punto su successi e fallimenti di un format sperimentale per l’organizzazione di eventi su e con il web.

A raccontarla oggi sembra quasi un’idea scontata. Organizzare in un contesto accademico un evento sui blog con protagonisti i blogger.
L’idea ci è balenata nella mente sul finire del 2006 durante una delle sessioni di procrastinazione strutturata che organizziamo periodicamente al LaRiCA.
Subito dopo è venuto fuori il nome “Conversazioni dal Basso”. Una sorta di traduzione creativa dell’aggettivo inglese grassroots diventato popolare in associazione con il termine journalism grazie a We the Media.
Poco dopo ci sono arrivate delle proposte di logo.
Fin dall’inizio è stato chiaro che “Conversazioni dal Basso” non avrebbe dovuto semplicemente parlare di blog e social media ma che avrebbe invece dovuto farlo secondo le logiche stesse della cultura partecipativa.
Per questo abbiamo realizzato un blog per raccontare l’evento ma anche un wiki per promuovere la forma di collaborazione più aperta e destrutturata possibile.
Solo in questo modo sarebbe stato qualcosa di più di una semplice conferenza, qualcosa di più di una mera vetrina per i nostri studi sui media sociali.
Certo doveva essere anche questo, ma al tempo stesso rappresentare un laboratorio per studiare quei processi vivendoli da protagonisti e non da semplici spettatori.
Si perché contrariamente alla tradizione dell’oggettività scientifica, esistono fenomeni che non possono essere compresi se non si è disposti ad entrare nel fenomeno stesso vivendolo dall’interno (si veda il bel pezzo Brave New World of Digital Intimacy sul New York Times).
Ad un certo punto il nostro background sociocibernetico di studi sui sistemi sociali, complessità e logiche dell’osservazione di secondo ordine, la prospettiva dell’AcaFan di cui parla Henry Jenkins, il coordinamento di comunità online finalizzate ad uno scopo ed i fenomeni che volevamo studiare stavano convergendo tutti verso un’unica prospettiva alla luce della quale il tempo dedicato ad organizzare un evento o – come si sarebbe rivelato in seguito – una serie di eventi, poteva essere considerato, anche da una prospettiva di ricerca, ben speso.
Prima abbiamo sperimentato il coinvolgimento dei blogger organizzando un workshop dove sarebbero stati protagonisti e co-organizzatori e non semplici comparse. Poi abbiamo deciso di allargare ancora di più la nostra comunità includendo alcuni nostri studenti ed un numero ancora più vasto di blogger.
Sono nati così il primo ed secondo workshop (dedicato alla politica) “Conversazioni dal Basso” ed il primo Festival dei Blog a Urbino.
Nel tempo il gruppo di volontari che co-organizzano attivamente gli eventi è cresciuto da una decina a circa trenta persone e al tempo stesso abbiamo iniziato ad usare un numero di strumenti web sempre più vasto ed eterogeneo.
Per la collaborazione stiamo usando il Basecamp di 37signals, per la condivisione di file drop.io, per la promozione gli eventi di Facebook, per le dirette web UStream, per le iscrizioni il bellissimo EventBrite, per i video un canale di YouTube. Questo senza considerare le quasi mille foto etichettate “conversazionidalbasso” su Flickr.
Ovviamente portare le logiche di apertura e dell’auto-organizzazione nell’ambito di una struttura spesso gerarchica e chiusa come l’accademia (non che altre organizzazioni che abbia visto in Italia lo siano meno) non è stato facile e non lo è tuttora. Conciliare la creatività ed i ritmi lavorativi di un gruppo di digital natives (fra l’altro volontari) con l’esigenza di promuovere delicatissime quanto necessarie forme di collaborazione intra ed inter-universitarie è un lavoro stimolante ma non facile.
In questo senso il Festival dei Blog di Urbino è molto diverso dalla Blog Fest di Riva del Garda (lo dico anche a beneficio della giornalista di Italia 1 che mi ha telefonato circa un mese fa).
Nessuno di noi è un professionista dell’organizzazione di eventi, il budget complessivo del Festival dei Blog ’07 è stato di molto inferiore a 10.000 euro e quello di quest’anno, grazie agli sponsor e alle donazioni dei singoli, non graverà che in piccolissima parte sulle tasche dell’istituzione che organizza l’evento.
Ovviamente nè io nè altri miei colleghi guadagna un euro dagli eventi “Conversazioni dal Basso”.
Però in esperienza, conoscenza di persone smart e visibilità abbiamo guadagnato nel corso di questi anni una cifra inestimabile.
Parte di questa cifra proviamo a restituirla alla comunità cercando con impegno di organizzare ogni anno eventi più interessanti, divertenti ed innovativi.
Fare la stessa cosa due volte non ci piace.
Ecco perchè nonostante il Treasure Hunt Wireless Game di ottobre 2007 sia stato molto divertente, abbiamo deciso di rilanciare con i Giochi Olimpici dei Blogger.
Ecco perchè abbiamo pensato di ospitare la prima Girl Geek Dinner non metropolitana affidandone l’organizzazione all’entusiasmo di quattro giovanissime ragazze geek.
Ecco perchè abbiamo proposto ad un gruppo di studenti di organizzare in completa autonomia il concorso fotografico “Living in a Wireless Campus”.
Ecco perché abbiamo deciso di sperimentare un format di BarCamp Accademico che fa della contraddizione fra questi due termini la sua stessa ragione di esistenza e nel farlo condensa simbolicamente in sè stesso lo spirito delle “Conversazioni dal Basso”.
Anche quest’anno sono sicuro che mi stancherò e mi divertirò.
Ci vediamo li?
P.S. Se stai leggendo questo articolo e sei una “blogstar” di quelle che vivono raccontando alle aziende le potenzialità della cultura partecipativa e del web, questo è il tuo momento per restituire qualcosa alla comunità. Partecipa e diffondi la campagna di auto-finanziamento 🙂
CROWD FUNDING: Acquista un “Supporters Ticket” a donazione libera ed aiutaci a finanziare l’Academic BarCamp. Bastano anche solo 5 €.

A raccontarla oggi sembra quasi un’idea scontata. Organizzare in un contesto accademico un evento sui blog con protagonisti i blogger.

L’idea ci è balenata nella mente sul finire del 2006 durante una delle sessioni di procrastinazione strutturata che organizziamo periodicamente al LaRiCA.

Subito dopo è venuto fuori il nome “Conversazioni dal Basso”. Una sorta di traduzione creativa dell’aggettivo inglese grassroots diventato popolare in associazione con il termine journalism grazie a We the Media.

Poco dopo ci sono arrivate delle proposte di logo.

Fin dall’inizio è stato chiaro che “Conversazioni dal Basso” non avrebbe dovuto semplicemente parlare di blog e social media ma che avrebbe invece dovuto farlo secondo le logiche stesse della cultura partecipativa.

Per questo abbiamo realizzato un blog per raccontare l’evento ma anche un wiki per promuovere la forma di collaborazione più aperta e destrutturata possibile.

Solo in questo modo sarebbe stato qualcosa di più di una semplice conferenza, qualcosa di più di una mera vetrina per i nostri studi sui media sociali.

Certo doveva essere anche questo, ma al tempo stesso rappresentare un laboratorio per studiare quei processi vivendoli da protagonisti e non da semplici spettatori.

Si perché contrariamente alla tradizione dell’oggettività scientifica, esistono fenomeni che non possono essere compresi se non si è disposti ad entrare nel fenomeno stesso vivendolo dall’interno (si veda il bel pezzo Brave New World of Digital Intimacy sul New York Times).

Ad un certo punto il nostro background sociocibernetico di studi sui sistemi sociali, complessità e logiche dell’osservazione di secondo ordine, la prospettiva dell’AcaFan di cui parla Henry Jenkins, il coordinamento di comunità online finalizzate ad uno scopo ed i fenomeni che volevamo studiare stavano convergendo tutti verso un’unica prospettiva alla luce della quale il tempo dedicato ad organizzare un evento o – come si sarebbe rivelato in seguito – una serie di eventi, poteva essere considerato, anche da una prospettiva di ricerca, ben speso.

Prima abbiamo sperimentato il coinvolgimento dei blogger organizzando un workshop dove sarebbero stati protagonisti e co-organizzatori e non semplici comparse. Poi abbiamo deciso di allargare ancora di più la nostra comunità includendo alcuni nostri studenti ed un numero ancora più vasto di blogger.

Sono nati così il primo ed secondo workshop (dedicato alla politica) “Conversazioni dal Basso” ed il primo Festival dei Blog a Urbino.

Nel tempo il gruppo di volontari che co-organizzano attivamente gli eventi è cresciuto da una decina a circa trenta persone e al tempo stesso abbiamo iniziato ad usare un numero di strumenti web sempre più vasto ed eterogeneo.

Per la collaborazione stiamo usando il Basecamp di 37signals, per la condivisione di file drop.io, per la promozione gli eventi di Facebook, per le dirette web UStream, per le iscrizioni il bellissimo EventBrite, per i video un canale di YouTube. Questo senza considerare le quasi mille foto etichettate “conversazionidalbasso” su Flickr.

Ovviamente portare le logiche di apertura e dell’auto-organizzazione nell’ambito di una struttura spesso gerarchica e chiusa come l’accademia (non che altre organizzazioni che abbia visto in Italia lo siano meno) non è stato facile e non lo è tuttora. Conciliare la creatività ed i ritmi lavorativi di un gruppo di digital natives (fra l’altro volontari) con l’esigenza di promuovere delicatissime quanto necessarie forme di collaborazione intra ed inter-universitarie è un lavoro stimolante ma non facile.

In questo senso il Festival dei Blog di Urbino è molto diverso dalla Blog Fest di Riva del Garda (lo dico anche a beneficio della giornalista di Italia 1 che mi ha telefonato circa un mese fa).

Nessuno di noi è un professionista dell’organizzazione di eventi, il budget complessivo del Festival dei Blog ’07 è stato di molto inferiore a 10.000 euro e quello di quest’anno, grazie agli sponsor e alle donazioni dei singoli, non graverà che in piccolissima parte sulle tasche dell’istituzione che organizza l’evento.

Ovviamente nè io nè altri miei colleghi guadagna un euro dagli eventi “Conversazioni dal Basso”.

Però in esperienza, conoscenza di persone smart e visibilità abbiamo guadagnato nel corso di questi anni una cifra inestimabile.

Parte di questa cifra proviamo a restituirla alla comunità cercando con impegno di organizzare ogni anno eventi più interessanti, divertenti ed innovativi.

Fare la stessa cosa due volte non ci piace.

Ecco perchè nonostante il Treasure Hunt Wireless Game di ottobre 2007 sia stato molto divertente, abbiamo deciso di rilanciare con i Giochi Olimpici dei Blogger.

Ecco perchè abbiamo pensato di ospitare la prima Girl Geek Dinner non metropolitana affidandone l’organizzazione all’entusiasmo di quattro giovanissime ragazze geek.

Ecco perchè abbiamo proposto ad un gruppo di studenti di organizzare in completa autonomia il concorso fotografico “Living in a Wireless Campus”.

Ecco perché abbiamo deciso di sperimentare un format di BarCamp Accademico che fa della contraddizione fra questi due termini la sua stessa ragione di esistenza e nel farlo condensa simbolicamente in sè stesso lo spirito delle “Conversazioni dal Basso”.

Anche quest’anno sono sicuro che mi stancherò e mi divertirò.

Ci vediamo li?

P.S. Se stai leggendo questo articolo e sei una “blogstar” di quelle che vivono raccontando alle aziende le potenzialità della cultura partecipativa e del web, questo è il tuo momento per restituire qualcosa alla comunità. Partecipa e diffondi la campagna di auto-finanziamento 🙂

CROWD FUNDING: Acquista un “Supporters Ticket” a donazione libera ed aiutaci a finanziare l’Academic BarCamp. Bastano anche solo 5 €.

A raccontarla oggi sembra quasi un’idea scontata. Organizzare in un contesto accademico un evento sui blog con protagonisti i blogger.

L’idea ci è balenata nella mente sul finire del 2006 durante una delle sessioni di procrastinazione strutturata che organizziamo periodicamente al LaRiCA.

Subito dopo è venuto fuori il nome “Conversazioni dal Basso”. Una sorta di traduzione creativa dell’aggettivo inglese grassroots diventato popolare in associazione con il termine journalism grazie a We the Media.

Poco dopo ci sono arrivate delle proposte di logo.

Fin dall’inizio è stato chiaro che “Conversazioni dal Basso” non avrebbe dovuto semplicemente parlare di blog e social media ma che avrebbe invece dovuto farlo secondo le logiche stesse della cultura partecipativa.

Per questo abbiamo realizzato un blog per raccontare l’evento ma anche un wiki per promuovere la forma di collaborazione più aperta e destrutturata possibile.

Solo in questo modo sarebbe stato qualcosa di più di una semplice conferenza, qualcosa di più di una mera vetrina per i nostri studi sui media sociali.

Certo doveva essere anche questo, ma al tempo stesso rappresentare un laboratorio per studiare quei processi vivendoli da protagonisti e non da semplici spettatori.

Si perché contrariamente alla tradizione dell’oggettività scientifica, esistono fenomeni che non possono essere compresi se non si è disposti ad entrare nel fenomeno stesso vivendolo dall’interno (si veda il bel pezzo Brave New World of Digital Intimacy sul New York Times).

Ad un certo punto il nostro background sociocibernetico di studi sui sistemi sociali, complessità e logiche dell’osservazione di secondo ordine, la prospettiva dell’AcaFan di cui parla Henry Jenkins, il coordinamento di comunità online finalizzate ad uno scopo ed i fenomeni che volevamo studiare stavano convergendo tutti verso un’unica prospettiva alla luce della quale il tempo dedicato ad organizzare un evento o – come si sarebbe rivelato in seguito – una serie di eventi, poteva essere considerato, anche da una prospettiva di ricerca, ben speso.

Prima abbiamo sperimentato il coinvolgimento dei blogger organizzando un workshop dove sarebbero stati protagonisti e co-organizzatori e non semplici comparse. Poi abbiamo deciso di allargare ancora di più la nostra comunità includendo alcuni nostri studenti ed un numero ancora più vasto di blogger.

Sono nati così il primo ed secondo workshop (dedicato alla politica) “Conversazioni dal Basso” ed il primo Festival dei Blog a Urbino.

Nel tempo il gruppo di volontari che co-organizzano attivamente gli eventi è cresciuto da una decina a circa trenta persone e al tempo stesso abbiamo iniziato ad usare un numero di strumenti web sempre più vasto ed eterogeneo.

Per la collaborazione stiamo usando il Basecamp di 37signals, per la condivisione di file drop.io, per la promozione gli eventi di Facebook, per le dirette web UStream, per le iscrizioni il bellissimo EventBrite, per i video un canale di YouTube. Questo senza considerare le quasi mille foto etichettate “conversazionidalbasso” su Flickr.

Ovviamente portare le logiche di apertura e dell’auto-organizzazione nell’ambito di una struttura spesso gerarchica e chiusa come l’accademia (non che altre organizzazioni che abbia visto in Italia lo siano meno) non è stato facile e non lo è tuttora. Conciliare la creatività ed i ritmi lavorativi di un gruppo di digital natives (fra l’altro volontari) con l’esigenza di promuovere delicatissime quanto necessarie forme di collaborazione intra ed inter-universitarie è un lavoro stimolante ma non facile.

In questo senso il Festival dei Blog di Urbino è molto diverso dalla Blog Fest di Riva del Garda (lo dico anche a beneficio della giornalista di Italia 1 che mi ha telefonato circa un mese fa).

Nessuno di noi è un professionista dell’organizzazione di eventi, il budget complessivo del Festival dei Blog ’07 è stato di molto inferiore a 10.000 euro e quello di quest’anno, grazie agli sponsor e alle donazioni dei singoli, non graverà che in piccolissima parte sulle tasche dell’istituzione che organizza l’evento.

Ovviamente nè io nè altri miei colleghi guadagna un euro dagli eventi “Conversazioni dal Basso”.

Però in esperienza, conoscenza di persone smart e visibilità abbiamo guadagnato nel corso di questi anni una cifra inestimabile.

Parte di questa cifra proviamo a restituirla alla comunità cercando con impegno di organizzare ogni anno eventi più interessanti, divertenti ed innovativi.

Fare la stessa cosa due volte non ci piace.

Ecco perchè nonostante il Treasure Hunt Wireless Game di ottobre 2007 sia stato molto divertente, abbiamo deciso di rilanciare con i Giochi Olimpici dei Blogger.

Ecco perchè abbiamo pensato di ospitare la prima Girl Geek Dinner non metropolitana affidandone l’organizzazione all’entusiasmo di quattro giovanissime ragazze geek.

Ecco perchè abbiamo proposto ad un gruppo di studenti di organizzare in completa autonomia il concorso fotografico “Living in a Wireless Campus”.

Ecco perché abbiamo deciso di sperimentare un format di BarCamp Accademico che fa della contraddizione fra questi due termini la sua stessa ragione di esistenza e nel farlo condensa simbolicamente in sè stesso lo spirito delle “Conversazioni dal Basso”.

Anche quest’anno sono sicuro che mi stancherò e mi divertirò.

Ci vediamo li?

P.S. Se stai leggendo questo articolo e sei una “blogstar” di quelle che vivono raccontando alle aziende le potenzialità della cultura partecipativa e del web, questo è il tuo momento per restituire qualcosa alla comunità. Partecipa e diffondi la campagna di auto-finanziamento 🙂

CROWD FUNDING: Acquista un “Supporters Ticket” a donazione libera ed aiutaci a finanziare l’Academic BarCamp. Bastano anche solo 5 €.

What's next #2: Non credere a nessuno che abbia più di venticinque anni

L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.
Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.
Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.
Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.
I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.
Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.
La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.
E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.
Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.
Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.
Somministri il test ad un milione di persone.
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.
Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.
Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.
Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.
Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.
Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.
E questo solo per parlare dell’inefficacia.
La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.
Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.
E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).
Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.
Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).
Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.
Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.
Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.
La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.
Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).
Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.
Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.
Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.
L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.
Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.
Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.

Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).

Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.

Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.

L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.

Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.

Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.

Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).

Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.

Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.

L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.

Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.

Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

La via italiana ai siti di social network

Presentazione dello stato di avanzamento di una ricerca sull’uso dei siti di social network in Italia.

Venerdì ho presentato nel corso di un workshop pomeridiano del convegno “La vita online. Trasformazioni nello/dello spazio pubblico” lo stato di avanzamento dell’analisi comparativa fra Facebook e Badoo.
In particolare ho affinato il background teorico, formulato due ipotesi di ricerca e definito la metodologia.
Le due ipotesi ruotano intorno all’idea che stiamo assistendo ad una fase di passaggio nell’uso dei social media in Italia. I social media, come in tutto il mondo, sono utilizzati moltissimo da giovani e giovanissimi.
In una prima fase Internet rappresenta per una certa generazione di giovani e giovanissimi uno spazio dove socializzare con i propri coetanei e sperimentare la loro identità a riparo dagli occhi indiscreti dei genitori e degli adulti (leggi docenti, marketing e malintenzionati) in genere.
Questa prima fase si esaurisce presto. Sono segnali inequivocabili della fine di questo primo periodo di socializzazione ai nuovi media gli articoli di giornali e l’attenzione che i mezzi di comunicazione di massa dedicano ai giovani ed il loro uso della rete.
A questo punto i teens trovano riparo dentro i social network. I social network corrispondono perfettamente alle esigenze di comunicazione “con gli amici che si vede più spesso” che emerge dall’analisi di quello che i teenagers fanno con questi siti e al tempo stesso garantiscono una certa protezione.
In questo senso MySpace è un nome che più azzeccato non poteva essere.
Penso che in Italia siamo alle soglie di questo passaggio. L’uso massiccio di SNSs come Badoo (dove il profilo è del tutto pubblico) e delle piattaforme di blog rappresenta la prima fase del “tutto pubblico tanto non mi troveranno mai”. Una fase nella quale l’utente non ha chiaro quanto pubblico possa essere ciò che è in rete (grazie alla ricercabilità). Una fase nella quale si apprende, spesso sulla propria pelle, come usare la distinzione pubblico/privato in rete.
Da qui la mia prima ipotesi.
La seconda riguarda invece la tendenza ad usare Internet per aumentare la quantità dei propri contatti (aggiungendo gente sconosciuta ed accettando ogni invito) vs rafforzare i legami sociali esistenti creando intorno alla propria rete sociale un confine che ne definisca i criteri di appartenenza. Tecnicamente nei termini di Putnam si parla rispettivamente di bridging e di bonding del capitale sociale. Anche in questo caso ho la sensazione che la fase del bridging selvaggio (vedi siti tipo Neurona) sia destinata a breve durata. Anche in questo caso ho la sensazione che studiando le differenze fra Facebook e Badoo in Italia si possa imparare molto.
Tutto questo ragionamento è riassunto nel set di slide che condivido volentieri qui sotto.

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Per il proseguio della ricerca l’idea è quella di intervistare i responsabili di Badoo con i quali sono già in contatto ed iniziare subito dopo una serie di focus group su utenti italiani di FB e di Badoo.
Cosa ne pensate? Suggerimenti? Domande? Esperienze dirette che vale la pena raccontare?

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Insegnare ai "nativi" nello spazio mediato di rete

Solo per segnalare che Indire ha pubblicato un mio breve articolo che presenta il progetto Taccle (Teachers’ Aids on Creating Content for Learning Environments) di cui avevo parlato qualche tempo fa.

L’articolo riprende alcuni dei discorsi che avevo fatto durante l’Unconventional Conference organizzata qualche mese fa da alcuni studenti della Facoltà di Economia di uniurb.

P.S. Approfito per ringraziare Carlo Daniele per il bel lavoro di realizzazione del template di Joomla del sito Taccle.eu.

How to search, store, export and analyze user generated content for social science

Ieri mattina a Trento con Giovanni e Luca abbiamo presentato alcuni risultati preliminari della ricerca media e generazioni.
In particolare il compito affidato in questa prima fase del progetto alla nostra unità era quello di analizzare le conversazioni online attivate a partire da un set di prodotti generazionali. Lo specifico focus era sulle generazioni X ed Y (i nati dai primi anni ’70 in poi).
I risultati sono stati interessanti e credo che alcuni estratti verranno pubblicati sul sito del progetto insieme ai progressi delle altre linea di ricerca desk sulle generazioni in letteratura e nello specifico del romanzo rosa.
Questo post è invece dedicato a raccontare più nel dettaglio di quanto abbiamo potuto fare ieri la metodologia usata dal punto di vista tecnico (vista anche la curiosità ed interesse suscitata nei colleghi presenti).
L’idea di analizzare le conversazioni online non è nuova per chi legge questo blog.
Per un inquadramento teorico complessivo della questione rimando ad un articolo che ho scritto qualche tempo fa mentre due esempi di progetti pilota realizzati con lo scopo di mettere alla prova l’approccio sono Eyes on Europe (paper, post) e Eyes on you: Pregnancy 2.0 (webcast, draft paper, post).
I progetti pilota ci hanno insegnato che (1) la metodologia aveva delle potenzialità e che (2) la quantità di dati disponibili impediva un qualsiasi ragionevole approccio non supportato dal computer al reperimento e all’analisi collaborativa di questi dati.
Abbiamo dunque deciso di impegnare risorse e tempo nello sviluppo di un’applicazione general purpose che supportasse il ricercatore nel reperimento guidato e nell’analisi collaborativa di questi dati.
Grazie alle competenze tecniche di Romeo e Alfredo questa applicazione è oggi una realtà.
wow20 wizardTecnicamente si tratta di una web application in grado di reperire, consumare, conservare, condividere ed esportare flussi informativi nel formato standard RSS verso le principali applicazioni esistenti per l’analisi del contenuto (al momento abbiamo testato il supporto di Nvivo 7 ma è ragionevole pensare che la stessa cosa possa funzionare con Atlas.ti).
All’atto dell’esportazione dei contenuti di un progetto (post di blog o forum di wow20 project listdiscussione che supportino rss, foto o video pubblicati sul web) la web application reperisce e restituisce le informazioni biografiche sull’autore del contenuto se disponibili su una delle numerose piattaforma di blog e condivisioni di contenuti audio/video supportate (usando tecniche di scraping ad hoc per ogni piattaforma).
Grazie a questa applicazione abbiamo potuto reperire a partire da un set di oltre 40 prodotti generazionali (film, serie tv, libri, videogiochi, musica, fumetti) e con query costruite ad hoc su ogni prodotto 3000 post.
wow20 project detail Di questi 3000 post 928 erano corredati dall’età dell’autore (dato essenziale per la ricerca sulle generazioni), oltre 1000 dal genere e molto spesso (non abbiamo calcolato questo dato esattamente perché privo di interesse nello specifico della ricerca) da una qualche forma (città o nazione) di indicazioni geografica di provenienza.
Questi dati strutturali insieme alla rilevanza degli stessi nei termini della ricerca dei contenuti reperiti rappresentano per la nostra unità di ricerca e per me in particolare una straordinaria conferma delle potenzialità dell’applicazione e della metodologia di ricerca (che solleva anche questioni estremamente interessanti di ordine metodologico ed etico).
Mi sarebbe piaciuto poter annunciare in questo post la disponibilità dell’applicazione per chiunque ne voglia fare uso ma ciò non è purtroppo possibile.
Non lo è per due ordini di ragioni.
1) La prima è che per il momento tutta l’attenzione nello sviluppo si è concentrata sulle funzionalità con conseguenze immaginabili sull’usabilità (oltre che sugli aspetti puramente estetici) dell’applicazione (che fra l’altro non ha neanche un nome definitivo);
2) La seconda è di performance. L’applicazione è infatti ospitata su una macchina virtuale che è ospitata dal server che ospita al tempo stesso la macchina virtuale di questo blog (lo sapevate già che la ricerca in Italia ha pochi fondi, no?). La fase di esportazione dei contenuti di un progetto è estremamente pesante in termini di carico di lavoro sulla macchina. La conseguenza è che se più di 3/4 utenti cercando di esportare contemporaneamente un progetto tendono a saturare le capacità di calcolo della macchina virtuale con le conseguenze che si possono immaginare.
Ovviamente stiamo lavorando per risolvere queste due questioni ma non siamo in grado di dire oggi quando ed anche se saremo in grado di poter rendere disponibile pubblicamente l’applicazione per i ricercatori che intendano farne uso.
Nel frattempo siamo però in grado di ospitare pilot isolati di ricercatori (in senso lato da laureandi, dottorandi, etc.) che ne facciano esplicitamente richiesta.
Se state progettando o realizzando una ricerca basata sull’analisi dei contenuti generati dagli utenti sul web potete contattarmi per concordare le modalità di accesso all’applicazione.
P.S. Anche le offerte di collaborazione sono ben accette. Dunque se l’idea dell’applicazione vi interessa ed avete risorse o competenze da mettere a disposizione per collaborare allo sviluppo del progetto siete i benvenuti.

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