Visualizzare le relazioni di amicizia dei membri di un gruppo Facebook

Analisi del gruppo Facebook dell’Università di Urbino

Ho scoperto solo oggi che netvizz consente di scaricare, oltre che il proprio grafo personale di Facebook, anche quello dei gruppi di cui si è membri.
Per testare questa funzionalità ho provato a scaricare il grafo relativo al gruppo Università di Urbino “Carlo Bo” composto, al momento in cui scrivo, da 2281 membri.
Nella documentazione è riportato che, a cause delle limitazioni imposte da Facebook sull’uso delle sue API, per gruppi superiori a 500 membri viene estratto un campione casuale di membri. Nella mia prova sono invece riuscito a scaricare, dopo alcuni minuti di attesa durante i quali sembra che non succeda nulla, un grafo praticamente completo composto da 2213 nodi e 13408 archi che rappresentano i legami di amicizia fra i membri del gruppo. Sul perché manchino all’appello 68 membri non saprei dirvi anche se sospetto possa dipendere dalle impostazioni di privacy degli utenti.
Netvizz crea un grafo indiretto in formato gdf. Da lì ad importare il grafo in Gephi il passo è stato breve.
Fra le misure di centralità ho deciso di utilizzare l’Eigenvector centrality per rappresentare le dimensioni dei nodi. Ho inoltre calcolato la modularity per individuare le comunità.
Ho infine applicato l’algoritmo ForceAtlas 2 per posizionare i nodi.
Ed ecco il risultato.

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Credo si tratti di una fotografia piuttosto fedele delle relazioni a Urbino (almeno per quello che le conosco io). Si nota l’emergere di alcuni cluster interessanti come quello degli studenti greci in blu (sulla destra e piuttosto isolati), l’area di scienze della comunicazione (in rosso), quella dell’impegno politico in bianco e piuttosto centrali a segnalare una tendenza a fare amicizia con molte persone diverse, caratteristica questa che condividono con il cluster verde che fa invece riferimento alla vita notturna e all’intrattenimento. Lascio a voi il piacere di identificare gli altri cluster.
Vi lascio inoltre con una piccola curiosità.
Questo è il grafo dei 100 membri del gruppo meglio connessi (sempre in base all’Eigenvector centrality) rispetto agli altri.

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Ci siete? E in che cluster?

Realtà digitali #10: Verso un nuovo socialismo digitale?

Kevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitaleKevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitaleKevin Kelly lancia la provocatoria idea di socialismo digitale

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.
Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.
La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]
[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.

Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.

La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]

[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Se esiste una terza via fra statalismo e capitalismo, essa va cercata nelle forme organizzative delle comunità tenute insieme da internet. Questa è la provocatoria tesi lanciata di recente da Kevin Kelly sulle colonne di Wired. Da Wikipedia in poi, la rete è ricca di comunità che condividono, cooperano, collaborano e, talvolta, agiscono collettivamente. La condivisione è il grado zero di questa forma organizzativa.

Basta guardare Facebook. Decine di amici popolano il nostro flusso di notizie personalizzato con le loro piccole e grandi notizie, progetti, riflessioni o la loro musica preferita condivisa quasi come se fosse un dono. Su questi contenuti si sviluppano discussioni e si intessono relazioni. Anche se ognuno agisce individualmente, emergono forme di cooperazione. Mettere ordine fra le proprie foto con i tag contribuisce a creare, a livello della comunità, un’enorme base di informazioni strutturate e navigabili. Talvolta poi la cooperazione diventa consapevole e si fa vera e propria collaborazione. Ognuno contribuisce consapevolmente a un certo progetto comune occupandosi di uno specifico aspetto. Senza scomodare l’esempio della comunità di programmatori che sviluppa Linux, il semplice gesto di aderire su Facebook a un gruppo che si propone di raccogliere un milione di persone che disprezzano George Bush, costituisce un buon esempio di questa collaborazione dal basso. Esistono infine forme di collaborazione che raggiungono dimensioni oltre la quali diventano vere e proprie azioni collettive. In queste azioni collettive non solo esiste una collaborazione organizzata dal basso, ma anche una qualche forma di organizzazione gerarchica che coordina gli sforzi dei molti.

La campagna elettorale di Barack Obama è un esempio calzante di azione collettiva. Lo staff del candidato ha creato gli spazi per l’aggregazione, fornito i materiali e costantemente aggiornato la comunità affinché non facesse mancare il suo apporto e mantenesse un elevato grado di partecipazione. Allo stesso modo Wikipedia è coordinata da un nucleo di volontari full time la cui attività è cruciale per la sopravvivenza e successo del progetto. Proprio la forma organizzativa delle azioni collettive supportate da internet, rappresenta bene l’idea di socialismo digitale. Si tratta dunque di qualcosa al tempo stesso molto diverso dal socialismo tradizionale, caratterizzato da un potere centralizzato e gerarchico e dall’assenza di proprietà privata ma altrettanto lontano dal capitalismo perché basato sull’economia del dono e su un’idea più flessibile di proprietà. Parole foto, video e competenze sono condivise talvolta per piacere, talvolta per interesse individuale. A prescindere da questo, il risultato finale è un modello organizzativo ad elevata partecipazione che sembra generare benessere collettivo in modo più efficace di quanto facciano i modelli tradizionali.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 16 Giugno. Questo articolo è l’ultimo della serie per questa stagione]

[Photo originally uploaded on June 15, 2009 by Reza Vaziri]

Realtà digitali #9: Vademecum per i politici che usano internet

Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web.

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.
Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.
La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.
Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.
Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.
“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.
La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]
[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Realtà digitali #8: L’eresia di una cultura convergente

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Questa diffusa convinzione richiede uno sguardo eretico per poter essere superata.

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.
Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.
Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.
La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.
Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.
Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.
Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]
[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]
P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.

Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.

Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.

La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.

Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.

Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.

Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]

[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]

P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Quando si parla di rete aleggia spesso una diffusa convinzione che tende a separare in modo netto le esperienze che hanno luogo nel mondo “virtuale” di internet da quelle che hanno invece luogo nel mondo “reale” della vita quotidiana. Senso comune basato sull’inesperienza, una certa letteratura, saggistica e cinematografia tipica degli albori della rete e più di recente servizi Second Life, hanno prima delineato e poi marcato il confine del cyber/spazio.

Dalla letteratura cyberpunk fino a produzioni cinematografiche come Il Tagliaerbe, da “Essere digitali” di Nicholas Negroponte con la sua distinzione fra atomi e bit, fino a “La vita sullo schermo” di Sherry Turkle con le sue straordinarie descrizioni di identità alternative sperimentate negli ambienti digitali basati sul solo testo negli anni ’90, il nostro immaginario del digitale si è formato, più o meno consapevolmente, a partire dal mito della rete come spazio altro.

Non si spiegherebbe altrimenti l’infatuazione mediatica per il mondo digitale di Second Life. Basato sulla metafora di una seconda vita sintetica ed alternativa idealmente contrapposta e separata – fin dalla scelta del nome stesso dell’ambiente – dalla prima vita “reale”. Il mondo virtuale di Second Life è facile da comprendere anche a chi non frequenta la rete proprio perché poggia su questa convinzione largamente condivisa.

La distinzione fra spazio e cyberspazio ha dato luogo nel tempo all’emergere di una retorica della contrapposizione fra i due mondi che ancora oggi fatica ad essere superata. Al neo-luddismo di chi non frequenta e teme la rete si contrappone l’apologia di internet come spazio intrinsecamente meritocratico e democratico. Alla delega politica si contrappone la partecipazione diretta. Ai nativi, gli immigrati del digitale. Al consumo la produzione. Ai mezzi di comunicazione di massa le conversazioni dal basso.

Tutte queste tensioni hanno contribuito a lacerare i residui brandelli di dialogo fra questi due mondi generando un effetto macchia cieca su quanto di interessante stava nel frattempo avvenendo nella terra di mezzo. Per questo è essenziale guardare al mito del cyber/spazio con uno sguardo eretico. Uno sguardo che cala la rete nel mondo reale ed il mondo reale nella rete. Uno sguardo impostato ad una continuità che non nega le differenze. Uno sguardo, infondo, ispirato dall’uso che i nostri figli fanno quotidianamente dello strumento internet.

Comprendere che il futuro è nella convergenza fra queste culture rappresenta oggi un vantaggio strategico in ogni settore perché anticipa ciò che non è comunque evitabile. Per questo motivo iniziative come il manifesto degli Eretici digitali promosso dai giornalisti Massimo Russo e Vittorio Zambardino meritano tutta l’attenzione e l’appoggio possibili.

Molto spesso è indispensabile essere eretici per capire il futuro.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 12 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 26 Maggio]

[Photo originally uploaded on July 19, 2008 by ecatoncheires]

P.S. Si so che l’immagine è quella di RD#7… I’m working on it 🙂

Realtà digitali #7: Il successo ai tempi della cultura convergente

Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.Lo straordinario caso di Susan Boyle è lo spunto per parlare ci cultura convergente e “spreadable media”.

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.
Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.
Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.
Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]
[Photo originally uploaded on February 28, 2009 by EssG]

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.

Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.

Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.

Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]

[Photo originally uploaded on February 28, 2009 by EssG]

Susan Boyle è una cantante non professionista. Ha quarantotto anni ed è balzata di recente agli onori delle cronache per la sua partecipazione allo show televisivo britannico Britain’s Got Talent (un reality show simile a X Factor). L’audizione di Susan Boyle, trasmessa l’11 aprile 2009 sul canale inglese itv, ha originato, grazie al passaparola in rete, un fenomeno mediatico globale di dimensioni e caratteristiche inedite. Solo su YouTube esistono centinaia di video di questa esibizione e filmati legati a questo personaggio. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno si consideri che il video più popolare fra quelli legati al caso Boyle, conta oggi, a circa due settimane dalla pubblicazione, oltre quarantacinque milioni di visualizzazioni contro i meno di venti milioni fatti registrare fino ad oggi dal discorso della vittoria pronunciato da Barack Obama la notte del 4 novembre 2008.

Nulla prima di oggi aveva mai raggiunto con la stessa rapidità una popolarità così vasta presso i pubblici di rete. Ma non sono solo dimensioni e rapidità del fenomeno a destare interesse. Susan Boyle sarà ricordata nei libri di scuola come un caso esemplare di cultura convergente. Di quella cultura, cioè, che nell’inedito spazio reso possibile dalla rete, fa incontrare il produttore e il consumatore attivo, il professionista e l’amatore, la comunicazione personale e quella di massa. Una cultura che, superando la tradizionale dicotomia fra produzioni dall’alto e conversazioni dal basso, si sviluppa proprio grazie alle caratteristiche di questo nuovo ecosistema. Grazie alla professionalità con la quale la storia e il personaggio sono stati raccontati dai produttori dello show. Grazie alle migliaia di persone che decidono di condividere con i propri amici il video dell’esibizione. E grazie, infine, alla cassa di risonanza che i media tradizionali creano occupandosi della straordinaria popolarità in rete del fenomeno. Ciò che alimenta questo circolo virtuoso spingendo persone a condividere esperienze attraverso la rete, rappresenta la chiave dei futuri successi nel sistema dei media nel “dopo-rete”.

Si parla spesso, in questi casi, di “video virali” per porre l’accento sulle capacità di rapida diffusione di questi video in rete (simili a quelle di un virus). A ben guardare, come ha acutamente fatto notare il guru della cultura convergente Henry Jenkins, la diffusione di questi video prevede un atto di libera scelta da parte di chi condivide il contenuto. Questa importante caratteristica rende la condivisione sociale profondamente diversa dalla diffusione di un virus che avviene invece a prescindere e spesso contro la volontà di chi infetta e di chi è infettato.

Comprendere, stimolare e supportare una moltitudine di scelte individuali. Spostare l’attenzione dal prodotto alla conversazione. Il futuro del successo dipenderà sempre più da tutto questo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 28 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 12 Maggio]

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Realtà digitali #6: Quando l’Italia scoprì a cosa serve Internet

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.
“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*
“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*
Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.
* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]
[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*

“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*

Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.

* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]

[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Ci sono eventi che segnano la storia di una nazione. Talvolta questi eventi incrociano l’evolversi dei modi di comunicare il mondo generando una cesura nella storia dei media.

“Erano esattamente le cinque del mattino di lunedì 28 dicembre 1908 quando un sisma spaventoso e un maremoto terrificante sconvolsero lo stretto di Messina. Due città, la stessa Messina e Reggio Calabria, furono completamente rase al suolo. Le vittime, accertate, si calcolarono in più di settantamila. Ma le prime notizie del disastro apparvero, in maniera ancora assai vaga ed approssimativa, soltanto sulle edizioni del mattino dei giornali del successivo 29 dicembre. Non solo, ma la stessa notizia della catastrofe arrivò nella capitale – e sotto forma di un normale telegramma – soltanto alle ore 17,45 di quel 28 dicembre: più di dodici ore a distanza dell’evento”*

“Erano esattamente le ore 19 e ventisei minuti del giorno 23 novembre 1980 quando un sisma di inaudita potenza e durata sconvolse buona parte delle regioni Campania e Basilicata. I danni furono enormi, le vittime accertate superarono le cinquemila persone. Radio e televisione trasmisero le prime notizie a distanza di pochi minuti dall’evento. Tra le 19,45 e le 20 i telegiornali furono già in grado di allestire edizioni straordinarie e di far pervenire sui teleschermi le prime immagini del disastro coinvolgendo stati d’animo, comportamenti, reazioni psichiche di milioni di persone le quali si trovarono di colpo nella veste di destinatari e partecipi di un universo collettivo simbolico”*

Erano esattamente le 3 e trentadue minuti del mattino di lunedì 6 aprile 2009 quando un violento sisma sconvolse la zona dell’Aquila. I danni furono enormi, le vittime superarono le trecento persone. La prima notizia dell’evento non fu data al mondo da un giornalista ma da una persona comune attraverso Internet. Dopo tre minuti. Nei caotici momenti immediatamente successivi, numerose altre persone diedero notizia dell’evento aggiungendo particolari, chiedendo informazioni, commentando e condividendo quanto avevano appena vissuto. Quando le prime agenzie di stampa, i siti dei quotidiani e le tv “all news” iniziarono a coprire l’evento, le persone comuni rilanciarono, commentarono e confrontarono i racconti. Compresa la gravità di quanto successo, lo spazio della rete diventò strumento per organizzare gli sforzi, condividere le informazioni, lanciare appelli e provare a rendersi utili. Nei giorni che seguirono, la straordinaria mobilitazione dei volontari accorsi da tutta Italia per prestare soccorso, fu coadiuvata ed affiancata da una miriade di piccole iniziative spontaneamente organizzate attraverso Internet. Iniziative piccole che fecero tuttavia comprendere a molti le potenzialità della rete come spazio per la rapida auto-organizzazione.

* tratto da Enrico Mascilli Migliorini, La comunicazione istantanea, Guida Editori, Napoli 1987.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 14 Aprile. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 28 Aprile]

[Photo originally uploaded on August 16, 2007 by Telstar Logistics]

Realtà digitali #4: L’indipendenza dei media e la nuova sfera pubblica

Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.Indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.
Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.
Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.
Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.
Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.
L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.
Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.
Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?
Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]
[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

In questi giorni si svolge ad Urbino un convegno che affronta il tema del rapporto fra democrazia ed indipendenza dei media in Italia. Attraverso un esplicito richiamo a Luigi Albertini e Luigi Enaudi, l’incontro riprende le fila di un dibattito antico ma mai sopito, interrogandosi sul rapporto fra assetti proprietari di radio, giornali e televisioni, indipendenza del giornalismo e formazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese.

Non occorrerebbe aggiungere altro per sottolineare l’importanza e l’attualità del tema se non fosse per il fatto che questo dibattito si svolge oggi al cospetto di una scenario mediale in corso di rapida trasformazione. Una trasformazione che cambia le regole del gioco.

Cinquecento anni fa la stampa ha rivoluzionato la sfera pubblica. Prima di allora il tasso di alfabetizzazione era al 1% della popolazione, la Chiesa Cattolica e le monarchie custodivano il monopolio dell’informazione e la circolazione delle idee procedeva con lentezza e difficoltà.

Intorno ad una tecnologia che consentiva di ridurre drasticamente tempi e costi di produzione si è andata sviluppando un’industria che ha nel tempo ottimizzato i canali di distribuzione incrementando gradualmente l’efficienza del sistema e, di conseguenza, i ricavi.

Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma. La produzione di contenuti e la loro diffusione digitale attraverso Internet costa drasticamente meno che in passato. Bypassando l’industria dei media, milioni di persone comuni pubblicano, remixano e diffondono contenuti che riguardano piccoli e grandi temi del loro quotidiano. In pochi desiderano diventare delle star, in molti sentono l’esigenza di condividere le proprie opinioni, esperienze ed idee.

L’esigenza avvertita da queste persone è analoga a quella che spingeva gli intellettuali europei del XVIII secolo a incontrarsi nei caffè per discutere le ultime uscite letterarie e l’attualità. In quei caffè nasce per Habermas la sfera pubblica.

Quei caffè sono oggi molto più affollati e rumorosi. La conversazione è diventata globale e di massa. La socialità è sempre la scintilla, i prodotti della odierna industria culturale e l’attualità sono ancora il principale combustibile, ma lo spazio dove queste conversazioni avvengono è radicalmente diverso. Uno spazio dove tutti possono accedere e dove le conversazioni si fanno permanenti, ricercabili, scalabili e replicabili.

Quanto contano dunque oggi gli assetti proprietari di radio, giornali e tv, quando il costo della pubblicazione è così basso da non costituire più una barriera all’ingresso nel mercato della diffusione di idee e delle opinioni? Quanto è importante per lo sviluppo della democrazia nel nostro Paese l’indipendenza dei media e quanto lo è, invece, garantire a tutti l’accesso ai caffè del XIX secolo?

Mi auguro che, con uno sguardo rivolto al futuro, anche di questo si parli in questi giorni ad Urbino.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 31 Marzo]

[Photo originally uploaded on May 2, 2007 by lecerclel]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

Realtà digitali #2: Ferrovie, saggezza delle folle e controllo della rete

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.
Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.
Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?
Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.
Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]
[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

Realtà digitali #1: Le conversazioni da bar dei pubblici connessi

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.
Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.
Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.
Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]
[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.

Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.

Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.

Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]

[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.

Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.

Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.

Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]

[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]