Attivismo digitale e nuove forme della rappresentanza politica

Partendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioniPartendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioniPartendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioni

[fb-share] Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?
Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.
Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.
Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.
La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.
we gov
Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.
A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.
Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:
1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.
2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.
3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.
4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.
Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?

Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.

Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.

Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.

La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.

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Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.

A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.

Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:

1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.

2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.

3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.

4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.

Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?

Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.

Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.

Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.

La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.

we gov

Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.

A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.

Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:

1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.

2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.

3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.

4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.

Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

Realtà digitali #5: Cultura della partecipazione da Obama alle comunità locali

Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?Dai governi nazionali alle realtà locali, si espande il contagio della cultura civica partecipativa supporta dal web. Cultura partecipativa o solo vuota retorica?

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.
Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.
Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.
Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.
Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.
Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]
[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Fra pochi mesi l’Università di Urbino avrà un nuovo rettore. La campagna elettorale vede, per il momento, protagonisti due candidati: Mauro Magnani e Stefano Pivato. Entrambi hanno deciso di presentare il programma attraverso siti Internet dedicati e dichiarano di voler utilizzare il web come spazio di supporto all’elaborazione collettiva di idee per il futuro dell’ateneo. Entrambi hanno accettato di rispondere in video a una serie di domande formulate e selezionate sul web nell’ambito di un progetto promosso dal basso e indipendente che sarà svelato nella seconda metà di aprile.

Queste iniziative rappresentano segnali interessanti di un cambiamento già avvenuto. L’eterna promessa della rete come spazio aperto alla partecipazione civica è diventata nel corso del 2008 una realtà dai contorni netti e dalle conseguenze che è ormai impossibile ignorare. La pressante richiesta di partecipazione attiva è un’ineludibile caratteristica delle comunità connesse.

Se ne sono accorti i media, le aziende e i nostri politici ma il caso dell’ateneo di Urbino mostra come questa esigenza diffusa stia ormai contagiando anche altre tipologie di comunità.

Il futuro ci dirà se veramente di cultura o solo di vuota retorica della partecipazione si tratta. Le esperienze che ci giungono dai Paesi dove Internet si è diffusa prima che in Italia mostrano che quando la retorica della partecipazione non si accompagna ad azioni coerenti essa diventa strategia suicida. La comunicazione web rende immediatamente visibile quando si chiede collaborazione con le parole negandola al tempo stesso con i comportamenti. Se si cerca davvero la partecipazione, bisogna renderla semplice e mettere in conto la possibilità di ospitare il dissenso sul proprio sito. Filtrare, moderare o richiedere all’utente di registrarsi solo per esprimere la propria opinione influenzerà negativamente la partecipazione ma non farà scomparire il dissenso ottenendo l’unico effetto di spostare altrove parte della conversazione. In questo altrove del web, che non è detto che sia meno visibile del sito ufficiale, queste conversazioni avverranno con tutta probabilità senza che il candidato o il suo staff possa seguirle o influenzarle esprimendo il proprio punto di vista.

Apertura e partecipazione sono contagiose e senza ritorno. Lo ha compreso bene Barack Obama che ha da prima costretto il suo sfidante ad inseguirlo sul terreno del web e non appena eletto ha iniziato a sperimentare nuove iniziative di coinvolgimento come la recente Open for questions che ha raccolto in pochi giorni oltre 104.000 domande poste da circa 92.000 cittadini.

Aprire il governo di 300 milioni di cittadini alla cultura della partecipazione è certamente un’impresa titanica ma è di certo a questa straordinaria e per certi versi incredibile esperienza pilota che bisogna guardare per costruire, sfruttando la rete, una rinnovata cultura della partecipazione nelle nostre comunità.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 31 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 14 Aprile]

[Photo originally uploaded on September 3, 2007 by john curley]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

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L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

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What’s next #15: La PA fra errori clamorosi, coach potatoes e networked citizens

Alcune riflessioni sulla natura più culturale che tecnologica del gap fra coach potatos e networked citizens a partire dall”ultimo rapporto di ricerca LaRiCA dedicato ai servizi della Pubblica Amministrazione su canale digitale terrestre. Alcune riflessioni sulla natura più culturale che tecnologica del gap fra coach potatos e networked citizens a partire dall”ultimo rapporto di ricerca LaRiCA dedicato ai servizi della Pubblica Amministrazione su canale digitale terrestre. Alcune riflessioni sulla natura più culturale che tecnologica del gap fra coach potatos e networked citizens a partire dall”ultimo rapporto di ricerca LaRiCA dedicato ai servizi della Pubblica Amministrazione su canale digitale terrestre.

Credo fosse fine marzo del 2005 quando mi fu chiesto di scrivere un progetto di ricerca sul digitale terrestre ed i servizi della pubblica amministrazione. La regione Marche aveva infatti presentato a fine 2004 al CNIPA una richiesta di finanziamento per un progetto finalizzato allo sviluppo di servizi  al cittadino attraverso il canale digitale terrestre. Il progetto in questione, battezzato “DigiMarche.dt: Portale regionale dei servizi di t-government” (qui il progetto ed una presentazione che ne descrive gli aspetti essenziali), fu approvato e nei mesi successivi ricevetti una richiesta di scrivere un progetto per richiedere alla regione Marche un co-finanziamento su una attività di ricerca che si sarebbe affiancata a DigiMarche. Insieme ai colleghi del LaRiCA scrivemmo un progetto intitolato eloquentemente “TV digitale terrestre e contenuto generato dagli utenti”.
L’idea alla base della nostra proposta tendeva a ribaltare il classico schema top-bottom che vede la pubblica amministrazione come erogatore di servizi ed il cittadino come consumatore passivo. Si trattava di immaginare e verificare l’effettiva esigenza da parte dei cittadini di servizi che mettessero i singoli utenti in grado di conversare fra di loro e con la pubblica amministrazione.
Il nostro progetto fu ammesso a co-finanziamento e oggi a distanza di oltre tre anni dalla stesura (il progetto è biennale ma ci sono stati tempi lunghi perché partisse effettivamente) ho completato il report di ricerca che rende conto del risultato del nostro lavoro.
La prima cosa da dire è che lavorare sull’impatto sociale delle tecnologie con questi tempi è estremamente difficile. L’evoluzione alla quale stiamo assistendo può decretare il successo o il fallimento di una tecnologia nello spazio di pochissimo tempo e scegliere di impiegare tempo e risorse sulla tecnologia sbagliata può costare caro.
Non so cosa avrei scritto in un report di ricerca sul digitale terrestre datato dicembre 2008 se nel lontano 2005 non avessimo avuto la felice intuizione di puntare sui contenuti generati dagli utenti. Questo ci ha consentito di ampliare la visione oltre la tecnologia del digitale terrestre (che già allora ci sembrava evidentemente non promettere bene) e di approcciare alla questione in modo originale introducendo l’idea dei contenuti generati dagli utenti.
Potrei dilungarmi su come la decisione presa a livello nazionale di investire sul digitale terrestre si sia rivelata disastrosa e di come avremmo potuto spendere meglio quei soldi supportando le pubbliche amministrazioni a sviluppare progetti e servizi su Internet o incentivando l’accesso alla rete da parte delle famiglie italiane (lo sapete già che siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di penetrazione di Internet nelle case secondo gli ultimi dati Eurostat, no?).
Rileggere oggi le due paginette iniziali dell’opuscolo realizzato dal CNIPA nel maggio 2005 per annunciare l’elenco dei progetti ammessi a co-finanziamento dovrebbe servire da monito per il futuro.
Il “fervore positivista” sul “t-government” (non cercate questo lemma su wikipedia inglese perché non esiste) era tutto basato sull’ipotesi che i “cittadini non esperti di informatica che utilizzano la TV e non hanno messo le mani su un computer” potessero scoprire nel set-top-box e relativo telecomando del digitale terrestre un canale alternativo allo sportello tradizionale per fruire dei servizi della Pubblica Amministrazione.
Purtroppo già nello stesso report commissionato dal CNIPA all’Istituto Piepoli e presentato nel maggio 2006 si intuiva che le cose non stavano andando esattamente per il verso giusto.
La televisione digitale terrestre si attestava ad una percentuale di penetrazione del 10% superata sia dalla televisione satellitare (al 15%) che, nettamente, da Internet (al 38% da casa o lavoro). I servizi della Pubblica Amministrazione offerta attraverso il digitale terrestre erano conosciuti dal 44% degli utilizzatori ma usati solo dal 2% di essi. Solo il 10% degli utilizzatori dei digitale terrestre chiedevano di poter fruire di altri servizi interattivi.
I dati che abbiamo rilevato nelle nostre indagini mostrano che dal 2006 il digitale terrestre si è sicuramente diffuso in modo maggiore e si attesta oggi fra il 26,2 ed il 25,4% raggiungendo la diffusione della televisione satellitare. Cresce molto anche l’accesso a Internet da casa che è stato riscontrato nel nostro campione in oltre il 50% dei casi.
Quello che tuttavia colpisce è lo scarso utilizzo dei servizi interattivi che riguarda il 24% dei possessori di decoder DVB-T contro il 30% riscontrato nel 2006 (le tipologie d’uso rimangono invece simili con in testa i servizi informativi). Anche in relazione alla domanda  specifica che chiedeva di stimare il vantaggio di usare i servizi della PA attraverso digitale terrestre, Internet e cellulare al posto dello sportello tradizionale, si nota come Internet sia lo strumento che sembra offrire, a parere degli intervistati, un maggiore vantaggio.

Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA
Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA

Appare inoltre sfatato il mito secondo il quale i soggetti più anziani e con più bassa scolarità possano essere interessati ai servizi interattivi attraverso il digitale terrestre. Nelle fasce di età 50-59 e 60 e oltre la percentuale di utenti del digitale terrestre che ha fatto uso dei servizi interattivi si attesta abbondantemente sotto la media rispettivamente al 12,8 e al 12%. Fra chi ha una licenza elementare solo il 5% ha fatto uso di servizi interattivi su digitale terrestre.
Distinzioni analoghe possono essere notate in relazione all’uso attivo di Internet (creazione di blog e pubblicazioni di video e foto) dove il tasso di scolarità e l’età incidono pesantemente non solo sul possesso dell’accesso a Internet ma anche sulle modalità di utilizzo.
Dunque il gap fra networked citizens e couch potatoes citizens esiste ma appare essere imputabile più ad aspetti culturali che tecnologici. Al di là dei pur utili servizi che la PA può rendere disponibile attraverso canali alternativi allo sportello tradizionale, quello su cui appare più urgente lavorare è questo gap culturale.
Qui non si tratta più semplicemente di offrire servizi veicolandoli su un canale piuttosto che un altro. Si tratta di ripensare il rapporto con i cittadini secondo una logica maggiormente ispirata dal bottom-up. Si tratta di aprire e saper portare avanti una conversazione che con il tempo aiuterà a modificare quella forma di distacco fra cittadini ed istituzioni che è palpabile in Italia come e forse più che in altre nazioni del mondo.
La sfida del futuro sarà dunque quella di includere la maggior parte di cittadini in questa conversazioni avendo cura che nessuno ne resti fuori per carenze culturali o peggio di accesso alla tecnologia. In questo senso è cruciale combattere accanto al ben noto divario digitale anche quello culturale, individuato per primo dallo studioso americano Henry Jenkins. Si tratta del divario che porta alcuni strati della popolazione ad essere fruitori passivi di contenuti anche quando le condizioni tecnologiche rendono possibile una forma di attività a basso costo e scarse barriere all’accesso.
Il rapporto di ricerca si conclude con il suggerimento di osservare con attenzione quanto sta avvenendo oltre oceano e contiene un’analisi dei servizi interattivi offerti dal sito della transizione del presidente eletto degli Stati Uniti.

Credo fosse fine marzo del 2005 quando mi fu chiesto di scrivere un progetto di ricerca sul digitale terrestre ed i servizi della pubblica amministrazione. La regione Marche aveva infatti presentato a fine 2004 al CNIPA una richiesta di finanziamento per un progetto finalizzato allo sviluppo di servizi  al cittadino attraverso il canale digitale terrestre. Il progetto in questione, battezzato “DigiMarche.dt: Portale regionale dei servizi di t-government” (qui il progetto ed una presentazione che ne descrive gli aspetti essenziali), fu approvato e nei mesi successivi ricevetti una richiesta di scrivere un progetto per richiedere alla regione Marche un co-finanziamento su una attività di ricerca che si sarebbe affiancata a DigiMarche. Insieme ai colleghi del LaRiCA scrivemmo un progetto intitolato eloquentemente “TV digitale terrestre e contenuto generato dagli utenti”.

L’idea alla base della nostra proposta tendeva a ribaltare il classico schema top-bottom che vede la pubblica amministrazione come erogatore di servizi ed il cittadino come consumatore passivo. Si trattava di immaginare e verificare l’effettiva esigenza da parte dei cittadini di servizi che mettessero i singoli utenti in grado di conversare fra di loro e con la pubblica amministrazione.

Il nostro progetto fu ammesso a co-finanziamento e oggi a distanza di oltre tre anni dalla stesura (il progetto è biennale ma ci sono stati tempi lunghi perché partisse effettivamente) ho completato il report di ricerca che rende conto del risultato del nostro lavoro.

La prima cosa da dire è che lavorare sull’impatto sociale delle tecnologie con questi tempi è estremamente difficile. L’evoluzione alla quale stiamo assistendo può decretare il successo o il fallimento di una tecnologia nello spazio di pochissimo tempo e scegliere di impiegare tempo e risorse sulla tecnologia sbagliata può costare caro.

Non so cosa avrei scritto in un report di ricerca sul digitale terrestre datato dicembre 2008 se nel lontano 2005 non avessimo avuto la felice intuizione di puntare sui contenuti generati dagli utenti. Questo ci ha consentito di ampliare la visione oltre la tecnologia del digitale terrestre (che già allora ci sembrava evidentemente non promettere bene) e di approcciare alla questione in modo originale introducendo l’idea dei contenuti generati dagli utenti.

Potrei dilungarmi su come la decisione presa a livello nazionale di investire sul digitale terrestre si sia rivelata disastrosa e di come avremmo potuto spendere meglio quei soldi supportando le pubbliche amministrazioni a sviluppare progetti e servizi su Internet o incentivando l’accesso alla rete da parte delle famiglie italiane (lo sapete già che siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di penetrazione di Internet nelle case secondo gli ultimi dati Eurostat, no?).

Rileggere oggi le due paginette iniziali dell’opuscolo realizzato dal CNIPA nel maggio 2005 per annunciare l’elenco dei progetti ammessi a co-finanziamento dovrebbe servire da monito per il futuro.

Il “fervore positivista” sul “t-government” (non cercate questo lemma su wikipedia inglese perché non esiste) era tutto basato sull’ipotesi che i “cittadini non esperti di informatica che utilizzano la TV e non hanno messo le mani su un computer” potessero scoprire nel set-top-box e relativo telecomando del digitale terrestre un canale alternativo allo sportello tradizionale per fruire dei servizi della Pubblica Amministrazione.

Purtroppo già nello stesso report commissionato dal CNIPA all’Istituto Piepoli e presentato nel maggio 2006 si intuiva che le cose non stavano andando esattamente per il verso giusto.

La televisione digitale terrestre si attestava ad una percentuale di penetrazione del 10% superata sia dalla televisione satellitare (al 15%) che, nettamente, da Internet (al 38% da casa o lavoro). I servizi della Pubblica Amministrazione offerta attraverso il digitale terrestre erano conosciuti dal 44% degli utilizzatori ma usati solo dal 2% di essi. Solo il 10% degli utilizzatori dei digitale terrestre chiedevano di poter fruire di altri servizi interattivi.

I dati che abbiamo rilevato nelle nostre indagini mostrano che dal 2006 il digitale terrestre si è sicuramente diffuso in modo maggiore e si attesta oggi fra il 26,2 ed il 25,4% raggiungendo la diffusione della televisione satellitare. Cresce molto anche l’accesso a Internet da casa che è stato riscontrato nel nostro campione in oltre il 50% dei casi.

Quello che tuttavia colpisce è lo scarso utilizzo dei servizi interattivi che riguarda il 24% dei possessori di decoder DVB-T contro il 30% riscontrato nel 2006 (le tipologie d’uso rimangono invece simili con in testa i servizi informativi). Anche in relazione alla domanda  specifica che chiedeva di stimare il vantaggio di usare i servizi della PA attraverso digitale terrestre, Internet e cellulare al posto dello sportello tradizionale, si nota come Internet sia lo strumento che sembra offrire, a parere degli intervistati, un maggiore vantaggio.

Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA
Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA

Appare inoltre sfatato il mito secondo il quale i soggetti più anziani e con più bassa scolarità possano essere interessati ai servizi interattivi attraverso il digitale terrestre. Nelle fasce di età 50-59 e 60 e oltre la percentuale di utenti del digitale terrestre che ha fatto uso dei servizi interattivi si attesta abbondantemente sotto la media rispettivamente al 12,8 e al 12%. Fra chi ha una licenza elementare solo il 5% ha fatto uso di servizi interattivi su digitale terrestre.

Distinzioni analoghe possono essere notate in relazione all’uso attivo di Internet (creazione di blog e pubblicazioni di video e foto) dove il tasso di scolarità e l’età incidono pesantemente non solo sul possesso dell’accesso a Internet ma anche sulle modalità di utilizzo.

Dunque il gap fra networked citizens e couch potatoes citizens esiste ma appare essere imputabile più ad aspetti culturali che tecnologici. Al di là dei pur utili servizi che la PA può rendere disponibile attraverso canali alternativi allo sportello tradizionale, quello su cui appare più urgente lavorare è questo gap culturale.

Qui non si tratta più semplicemente di offrire servizi veicolandoli su un canale piuttosto che un altro. Si tratta di ripensare il rapporto con i cittadini secondo una logica maggiormente ispirata dal bottom-up. Si tratta di aprire e saper portare avanti una conversazione che con il tempo aiuterà a modificare quella forma di distacco fra cittadini ed istituzioni che è palpabile in Italia come e forse più che in altre nazioni del mondo.

La sfida del futuro sarà dunque quella di includere la maggior parte di cittadini in questa conversazioni avendo cura che nessuno ne resti fuori per carenze culturali o peggio di accesso alla tecnologia. In questo senso è cruciale combattere accanto al ben noto divario digitale anche quello culturale, individuato per primo dallo studioso americano Henry Jenkins. Si tratta del divario che porta alcuni strati della popolazione ad essere fruitori passivi di contenuti anche quando le condizioni tecnologiche rendono possibile una forma di attività a basso costo e scarse barriere all’accesso.

Il rapporto di ricerca si conclude con il suggerimento di osservare con attenzione quanto sta avvenendo oltre oceano e contiene un’analisi dei servizi interattivi offerti dal sito della transizione del presidente eletto degli Stati Uniti.

Credo fosse fine marzo del 2005 quando mi fu chiesto di scrivere un progetto di ricerca sul digitale terrestre ed i servizi della pubblica amministrazione. La regione Marche aveva infatti presentato a fine 2004 al CNIPA una richiesta di finanziamento per un progetto finalizzato allo sviluppo di servizi  al cittadino attraverso il canale digitale terrestre. Il progetto in questione, battezzato “DigiMarche.dt: Portale regionale dei servizi di t-government” (qui il progetto ed una presentazione che ne descrive gli aspetti essenziali), fu approvato e nei mesi successivi ricevetti una richiesta di scrivere un progetto per richiedere alla regione Marche un co-finanziamento su una attività di ricerca che si sarebbe affiancata a DigiMarche. Insieme ai colleghi del LaRiCA scrivemmo un progetto intitolato eloquentemente “TV digitale terrestre e contenuto generato dagli utenti”.

L’idea alla base della nostra proposta tendeva a ribaltare il classico schema top-bottom che vede la pubblica amministrazione come erogatore di servizi ed il cittadino come consumatore passivo. Si trattava di immaginare e verificare l’effettiva esigenza da parte dei cittadini di servizi che mettessero i singoli utenti in grado di conversare fra di loro e con la pubblica amministrazione.

Il nostro progetto fu ammesso a co-finanziamento e oggi a distanza di oltre tre anni dalla stesura (il progetto è biennale ma ci sono stati tempi lunghi perché partisse effettivamente) ho completato il report di ricerca che rende conto del risultato del nostro lavoro.

La prima cosa da dire è che lavorare sull’impatto sociale delle tecnologie con questi tempi è estremamente difficile. L’evoluzione alla quale stiamo assistendo può decretare il successo o il fallimento di una tecnologia nello spazio di pochissimo tempo e scegliere di impiegare tempo e risorse sulla tecnologia sbagliata può costare caro.

Non so cosa avrei scritto in un report di ricerca sul digitale terrestre datato dicembre 2008 se nel lontano 2005 non avessimo avuto la felice intuizione di puntare sui contenuti generati dagli utenti. Questo ci ha consentito di ampliare la visione oltre la tecnologia del digitale terrestre (che già allora ci sembrava evidentemente non promettere bene) e di approcciare alla questione in modo originale introducendo l’idea dei contenuti generati dagli utenti.

Potrei dilungarmi su come la decisione presa a livello nazionale di investire sul digitale terrestre si sia rivelata disastrosa e di come avremmo potuto spendere meglio quei soldi supportando le pubbliche amministrazioni a sviluppare progetti e servizi su Internet o incentivando l’accesso alla rete da parte delle famiglie italiane (lo sapete già che siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di penetrazione di Internet nelle case secondo gli ultimi dati Eurostat, no?).

Rileggere oggi le due paginette iniziali dell’opuscolo realizzato dal CNIPA nel maggio 2005 per annunciare l’elenco dei progetti ammessi a co-finanziamento dovrebbe servire da monito per il futuro.

Il “fervore positivista” sul “t-government” (non cercate questo lemma su wikipedia inglese perché non esiste) era tutto basato sull’ipotesi che i “cittadini non esperti di informatica che utilizzano la TV e non hanno messo le mani su un computer” potessero scoprire nel set-top-box e relativo telecomando del digitale terrestre un canale alternativo allo sportello tradizionale per fruire dei servizi della Pubblica Amministrazione.

Purtroppo già nello stesso report commissionato dal CNIPA all’Istituto Piepoli e presentato nel maggio 2006 si intuiva che le cose non stavano andando esattamente per il verso giusto.

La televisione digitale terrestre si attestava ad una percentuale di penetrazione del 10% superata sia dalla televisione satellitare (al 15%) che, nettamente, da Internet (al 38% da casa o lavoro). I servizi della Pubblica Amministrazione offerta attraverso il digitale terrestre erano conosciuti dal 44% degli utilizzatori ma usati solo dal 2% di essi. Solo il 10% degli utilizzatori dei digitale terrestre chiedevano di poter fruire di altri servizi interattivi.

I dati che abbiamo rilevato nelle nostre indagini mostrano che dal 2006 il digitale terrestre si è sicuramente diffuso in modo maggiore e si attesta oggi fra il 26,2 ed il 25,4% raggiungendo la diffusione della televisione satellitare. Cresce molto anche l’accesso a Internet da casa che è stato riscontrato nel nostro campione in oltre il 50% dei casi.

Quello che tuttavia colpisce è lo scarso utilizzo dei servizi interattivi che riguarda il 24% dei possessori di decoder DVB-T contro il 30% riscontrato nel 2006 (le tipologie d’uso rimangono invece simili con in testa i servizi informativi). Anche in relazione alla domanda  specifica che chiedeva di stimare il vantaggio di usare i servizi della PA attraverso digitale terrestre, Internet e cellulare al posto dello sportello tradizionale, si nota come Internet sia lo strumento che sembra offrire, a parere degli intervistati, un maggiore vantaggio.

Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA
Vantaggio percepito sull'uso dei canali alternativi allo sportello tradizionale per accedere ai servizi della PA

Appare inoltre sfatato il mito secondo il quale i soggetti più anziani e con più bassa scolarità possano essere interessati ai servizi interattivi attraverso il digitale terrestre. Nelle fasce di età 50-59 e 60 e oltre la percentuale di utenti del digitale terrestre che ha fatto uso dei servizi interattivi si attesta abbondantemente sotto la media rispettivamente al 12,8 e al 12%. Fra chi ha una licenza elementare solo il 5% ha fatto uso di servizi interattivi su digitale terrestre.

Distinzioni analoghe possono essere notate in relazione all’uso attivo di Internet (creazione di blog e pubblicazioni di video e foto) dove il tasso di scolarità e l’età incidono pesantemente non solo sul possesso dell’accesso a Internet ma anche sulle modalità di utilizzo.

Dunque il gap fra networked citizens e couch potatoes citizens esiste ma appare essere imputabile più ad aspetti culturali che tecnologici. Al di là dei pur utili servizi che la PA può rendere disponibile attraverso canali alternativi allo sportello tradizionale, quello su cui appare più urgente lavorare è questo gap culturale.

Qui non si tratta più semplicemente di offrire servizi veicolandoli su un canale piuttosto che un altro. Si tratta di ripensare il rapporto con i cittadini secondo una logica maggiormente ispirata dal bottom-up. Si tratta di aprire e saper portare avanti una conversazione che con il tempo aiuterà a modificare quella forma di distacco fra cittadini ed istituzioni che è palpabile in Italia come e forse più che in altre nazioni del mondo.

La sfida del futuro sarà dunque quella di includere la maggior parte di cittadini in questa conversazioni avendo cura che nessuno ne resti fuori per carenze culturali o peggio di accesso alla tecnologia. In questo senso è cruciale combattere accanto al ben noto divario digitale anche quello culturale, individuato per primo dallo studioso americano Henry Jenkins. Si tratta del divario che porta alcuni strati della popolazione ad essere fruitori passivi di contenuti anche quando le condizioni tecnologiche rendono possibile una forma di attività a basso costo e scarse barriere all’accesso.

Il rapporto di ricerca si conclude con il suggerimento di osservare con attenzione quanto sta avvenendo oltre oceano e contiene un’analisi dei servizi interattivi offerti dal sito della transizione del presidente eletto degli Stati Uniti.

What's next #1: Facebook e Badoo in Italia

Nel primo numero di What’s Next un aggiornamento sullo stato di avanzamento della ricerca comparativa fra Facebook e Badoo in Italia. Nonostante la straordinaria crescita di Facebook nel corso del 2008, Badoo è ancora il SNSs preferito dagli italiani. Più maschile, giovane e prevalentemente centro-meridionale, l’utente tipo di Badoo in Italia rimane, nonostante questi nuovi dati, un fenomeno dove molto è ancora da scoprire.Nel primo numero di What’s Next un aggiornamento sullo stato di avanzamento della ricerca comparativa fra Facebook e Badoo in Italia. Nonostante la straordinaria crescita di Facebook nel corso del 2008, Badoo è ancora il SNSs preferito dagli italiani. Più maschile, giovane e prevalentemente centro-meridionale, l’utente tipo di Badoo in Italia rimane, nonostante questi nuovi dati, un fenomeno dove molto è ancora da scoprire.Nel primo numero di What’s Next un aggiornamento sullo stato di avanzamento della ricerca comparativa fra Facebook e Badoo in Italia. Nonostante la straordinaria crescita di Facebook nel corso del 2008, Badoo è ancora il SNSs preferito dagli italiani. Più maschile, giovane e prevalentemente centro-meridionale, l’utente tipo di Badoo in Italia rimane, nonostante questi nuovi dati, un fenomeno dove molto è ancora da scoprire.

I siti di social network (SNSs) come MySpace, Facebook, Orkut, Friendster o Bebo, da quando sono comparsi, hanno attratto milioni di utenti in tutto il mondo. Pur trattandosi di un successo globale un attento esame delle piattaforme più usate in ciascuna nazione può evidenziare percorsi di domesticazione anche molto diversi motivati da differenze culturali, ragioni storiche e caratteristiche specifiche di ogni singolo sito di social network.
A questo tema sarà dedicato il panel Social Network Site in national context a cui parteciperò durante la conferenza IR 9.0: Rethinking Communities, Rethinking Place (qualche altro italiano viene?).
Secondo un recente studio pubblicato da comScore (ben descritto in questo post da Vincenzo Cosenza) mentre in Nord America si è raggiunto un livello di adozione che non lascia molti spazi per incrementi percentuali significativi, i SNSs si stanno rapidamente diffondendo in tutti gli altri continenti.
In questo senso è particolarmente interessante lo studio realizzato dall’azienda svedese Royal Pingdom che sfruttando il servizio Google Insight for Search ha comparato l’attenzione locale verso i principali siti di social network in modo simile a quanto avevo fatto tempo fa usando Google Trends. Google Insight for Search premette di comparare il volume di ricerche generato da due o più parole chiave su Google. Al tempo stesso il servizio consente di limitare geograficamente le ricerche per comparare l’uso di una stessa parola chiave in due o più nazioni diverse.
Usando la stessa tecnica e rappresentazione grafica ho analizzato e creato una heat map  con i dati per un sesto social network non incluso nello studio di Royal Pingdom.
Il risultato, visibile nella slide 7, conferma come già notato in precedenza la popolarità di Badoo in Italia.

The Italian way to SNSs

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Lo scopo della ricerca che sto conducendo è proprio di comprendere i motivi di questo successo locale verificando se esistano delle variabili culturali, economiche o demografiche proprie del nostro Paese o caratteristiche specifiche del servizio in questione che lo giustifichino.
Allo scopo di meglio strutturare la ricerca ho deciso di confrontare Facebook, il social network più popolare del momento nel mondo, con Badoo nello specifico del nostro contesto nazionale. Un buon punto di partenza per conoscere la storia di questi due servizi sono le rispettive pagine su Wikipedia: Facebook e Badoo.
Per i lettori non abituali di questo blog segnalo i precedenti post in cui ho discusso alcuni aspetti di questo stesso tema:

Alla data di scrittura di questo articolo Badoo dichiara oltre 2.500.000 profili utente mentre Facebook qualcosa più di 600.000 (con una crescita straordinaria che è iniziata nel 2008 e non accenna ad arrestarsi). I dati sono stati ottenuti con specifiche interrogazioni all’interno dei due siti compiendo operazioni facilmente ripetibili da chiunque (si veda qui come fare per Facebook). La fonte è dunque lo stesso gestore del servizio e non di terze parti.
Lo studio che ho progettato è strutturato in più fasi:

  1. Una survey telefonica su un campione rappresentativo della popolazione italiana sopra i 18 anni (N = 1600) volta a costruire un quadro generale del fenomeno;
  2. Un confronto quantitativo sulle caratteristiche anagrafiche della popolazione di utenti di Facebook e Badoo con dati reperiti in diversi periodo a partire da dicembre 2007;
  3. Due focus group di 8 utenti ciascuno (due gruppi con oltre e meno di 25 anni) per ciascun sito di social network (ma sarebbe necessario farne molte di più | anyone interested to help?).

Allo stato di scrittura di questo post le fasi 1 (i cui risultati sono stati ampiamente diffusi e commentati in rete) e 2 sono state completate.
Questo post fa il punto sullo stato di avanzamento di questa ricerca in relazione specificamente alla fase 2.
Uno dei risultati principali a cui sono giunto è ben riassunto nella seguente heat map realizzata con la stessa tecnica e strumento descritti in precedenza.

Facebook & Badoo Google Insight heat map
Facebook & Badoo Google Insight heat map

Come si può facilmente notare anche all’interno di una stessa nazione la popolarità dei siti di social network è vincolata geograficamente. Il confronto fra queste due mappe suggerisce che Facebook sia prevalentemente usato nel nord Italia e Badoo nel centro e sopratutto a Sud.
Questa mappa manca tuttavia di un terzo protagonista importante che pur non essendo parte specifica della ricerca non può essere ignorato.
Netlog è infatti secondo in popolarità solo a Badoo (anche se a guardare il trend dell’ultimo mese sembra averlo addirittura superato) e pur non essendo stato possibile recuperare il numero complessivo degli utenti italiani è facile comprendere le dimensioni del fenomeno osservando questa immagine.
Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy (retrived August 2008)
Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy

Interessante anche la mappa di calore di Netlog che, pur non essendo un fenomeno specificamente italiano come Badoo, meriterebbe per certe sue caratteristiche come la distribuzione geografica visibile in questa immagine, uno studio dedicato.
Netlog popularity Google Insight heat map
Netlog popularity Google Insight heat map

Come accennato l’utenza italiana di Facebook è esplosa durante il 2008. Stando ai dati raccolti, nel segmento 16-19 anni si registra una crescita del 232% nel corso degli ultimi 8 mesi. Nello stesso periodo dell’anno e per lo stesso segmento di popolazione Badoo è cresciuto del 24% (la comparazione si basa sulla supposizione che gli utenti come meno di 18 anni su Badoo si attribuiscano un età superiore).
Per comodità ho raccolto questi dati in un foglio di calcolo di Google.
Chi lo desideri è dunque libero di analizzare questi dati come meglio crede o di creare un foglio di calcolo analogo con dati aggiornati in futuro.
Analizzando questi dati ho notato che:

  1. Fino a 25 anni gli utenti di Facebook sono più donne che uomini mentre per Badoo questo avviene solo nel segmento dei diciottenni;
  2. 25 anni è per Facebook il discrimine a partire dal quale il numero degli utenti descresce;
  3. La distribuzione di età degli utenti di Badoo è significativamente più schiacciata verso i giovani rispetto a Facebook.

Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)
Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)

Confrontando le curve della distribuzione di età con quelle pubblicate in questo studio di Rapleaf appare evidente che la popolazione di Facebook in Italia è molto più adulta di quanto lo sia in media. Al contrario la curva di Badoo più simile a quella media dei SNSs dedicati ai giovani.
via Rapleaf Report
via Rapleaf Report

Anche il dato relativo al genere merita attenzione perché conferma un trend già evidenziatosi altrove (PEW e Rapleaf).
Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia
Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia

Anche in Italia, le ragazze usano i social network più degli uomini e minore è l’età del segmento che si prende in esame maggiore è questa differenza. In media l’utenza di Badoo è molto più sbilianciata in termini di genere a favore dei maschi (65% maschi, 35% femmine) mentre in Facebook non si notano differenze significative (47% Maschi, 45% Femmine).
Altri dati interessanti per completare il quadro del confronto possono essere ottenuti utilizzando Google Trends for Websites che, a differenza del servizio citato in precedenza, stima il volume di traffico verso un certo sito. Si veda questo post di Vincenzo Cosenza ed i relativi commenti. In particolare è interessante confrontare i siti che i visitatori di Facebook e Badoo visitano più spesso. Ne escono due profili di utenza completamente diversi.
Uno spunto che potrebbe essere interessante seguire è quello di confrontare le tipologie di siti “Also visited” fra Italia e altre nazioni su i principali SNSs.
Questo è il quadro di riferimento complessivo che sono riuscito a ricostruire fino a questo momento.
Dal complesso di questi dati mi sembra possibile formulare alcune ipotesi che vale la pena approfondire attraverso i focus group nella fase successiva del lavoro.

  1. In una prospettiva di capitale sociale mi sembra che Badoo sia uno strumento più orientato al bridging e Facebook al bonding ovvero a rinsaldare le amicizie eistenti;
  2. La distribuzione geografica della popolazione dei due SNSs (analisi che potrebbe essere approfondita prendendo i dati dei profili x singola provincia su Badoo | anyone interested to help?) lascia immaginare che le diverse variabili economiche e socio-demografiche che caratterizzano il sud, il centro ed il nord italia possano influenzare la scelta della piattaforma di social network preferita;
  3. Sembra ipotizzabile fra Badoo e Facebook in Italia un divario analogo a quello che danah boyd ha notato fra MySpace e Facebook negli Stati Uniti;
  4. Poichè i profili di Badoo sono pubblici (basta avere il link diretto al profilo o ad uno dei contenuti) mentre quelli di Facebook sono visibili di default solo al proprio network è ipotizzabile anche che gli utenti di Badoo percepiscano meno il problema della privacy in rete. L’ipotesi è che non esista una chiara percezione di quanto pubblico sia un contenuto esposto in rete e che la maturazione di questa consapevolezza sia un’indice di uso più maturo della rete. [Il fatto che tutto sia così pubblico su Badoo potrebbe consentire ricerche semi-automatizzate basate sulla tecnica dello scraping dei contenuti e dei commenti e la navigazione di profilo in profilo seguendo i link dei friends | any tech guy interested to help?]

Nei prossimi giorni ho intenzione di promuovere una survery via web (anche se non era prevista inizialmente) e pubblicherò il protocollo dei focus group in modo che chiunque voglia aiutarmi possa intervistare un gruppo di utenti di Facebook e Badoo e spedirimi poi il file audio o la trascrizione o semplicemente le sue impressioni (contattatemi se siete interessati).
Come al solito mi interessa sentire il vostro parere, le vostre sensazioni, le vostre opinioni ed i suggerimenti nei commenti.
Il prossimo appuntamento con What’s Next è venerdì 12 settembre nel frattempo c’è friendfeed.

I siti di social network (SNSs) come MySpace, Facebook, Orkut, Friendster o Bebo, da quando sono comparsi, hanno attratto milioni di utenti in tutto il mondo. Pur trattandosi di un successo globale un attento esame delle piattaforme più usate in ciascuna nazione può evidenziare percorsi di domesticazione anche molto diversi motivati da differenze culturali, ragioni storiche e caratteristiche specifiche di ogni singolo sito di social network.

A questo tema sarà dedicato il panel Social Network Site in national context a cui parteciperò durante la conferenza IR 9.0: Rethinking Communities, Rethinking Place (qualche altro italiano viene?).

Secondo un recente studio pubblicato da comScore (ben descritto in questo post da Vincenzo Cosenza) mentre in Nord America si è raggiunto un livello di adozione che non lascia molti spazi per incrementi percentuali significativi, i SNSs si stanno rapidamente diffondendo in tutti gli altri continenti.

In questo senso è particolarmente interessante lo studio realizzato dall’azienda svedese Royal Pingdom che sfruttando il servizio Google Insight for Search ha comparato l’attenzione locale verso i principali siti di social network in modo simile a quanto avevo fatto tempo fa usando Google Trends. Google Insight for Search premette di comparare il volume di ricerche generato da due o più parole chiave su Google. Al tempo stesso il servizio consente di limitare geograficamente le ricerche per comparare l’uso di una stessa parola chiave in due o più nazioni diverse.

Usando la stessa tecnica e rappresentazione grafica ho analizzato e creato una heat map  con i dati per un sesto social network non incluso nello studio di Royal Pingdom.

Il risultato, visibile nella slide 7, conferma come già notato in precedenza la popolarità di Badoo in Italia.

The Italian way to SNSs

View SlideShare presentation or Upload your own. (tags: sns facebook)

Lo scopo della ricerca che sto conducendo è proprio di comprendere i motivi di questo successo locale verificando se esistano delle variabili culturali, economiche o demografiche proprie del nostro Paese o caratteristiche specifiche del servizio in questione che lo giustifichino.

Allo scopo di meglio strutturare la ricerca ho deciso di confrontare Facebook, il social network più popolare del momento nel mondo, con Badoo nello specifico del nostro contesto nazionale. Un buon punto di partenza per conoscere la storia di questi due servizi sono le rispettive pagine su Wikipedia: Facebook e Badoo.

Per i lettori non abituali di questo blog segnalo i precedenti post in cui ho discusso alcuni aspetti di questo stesso tema:

Alla data di scrittura di questo articolo Badoo dichiara oltre 2.500.000 profili utente mentre Facebook qualcosa più di 600.000 (con una crescita straordinaria che è iniziata nel 2008 e non accenna ad arrestarsi). I dati sono stati ottenuti con specifiche interrogazioni all’interno dei due siti compiendo operazioni facilmente ripetibili da chiunque (si veda qui come fare per Facebook). La fonte è dunque lo stesso gestore del servizio e non di terze parti.

Lo studio che ho progettato è strutturato in più fasi:

  1. Una survey telefonica su un campione rappresentativo della popolazione italiana sopra i 18 anni (N = 1600) volta a costruire un quadro generale del fenomeno;
  2. Un confronto quantitativo sulle caratteristiche anagrafiche della popolazione di utenti di Facebook e Badoo con dati reperiti in diversi periodo a partire da dicembre 2007;
  3. Due focus group di 8 utenti ciascuno (due gruppi con oltre e meno di 25 anni) per ciascun sito di social network (ma sarebbe necessario farne molte di più | anyone interested to help?).

Allo stato di scrittura di questo post le fasi 1 (i cui risultati sono stati ampiamente diffusi e commentati in rete) e 2 sono state completate.

Questo post fa il punto sullo stato di avanzamento di questa ricerca in relazione specificamente alla fase 2.

Uno dei risultati principali a cui sono giunto è ben riassunto nella seguente heat map realizzata con la stessa tecnica e strumento descritti in precedenza.

Facebook & Badoo Google Insight heat map
Facebook & Badoo Google Insight heat map

Come si può facilmente notare anche all’interno di una stessa nazione la popolarità dei siti di social network è vincolata geograficamente. Il confronto fra queste due mappe suggerisce che Facebook sia prevalentemente usato nel nord Italia e Badoo nel centro e sopratutto a Sud.

Questa mappa manca tuttavia di un terzo protagonista importante che pur non essendo parte specifica della ricerca non può essere ignorato.

Netlog è infatti secondo in popolarità solo a Badoo (anche se a guardare il trend dell’ultimo mese sembra averlo addirittura superato) e pur non essendo stato possibile recuperare il numero complessivo degli utenti italiani è facile comprendere le dimensioni del fenomeno osservando questa immagine.

Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy (retrived August 2008)
Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy

Interessante anche la mappa di calore di Netlog che, pur non essendo un fenomeno specificamente italiano come Badoo, meriterebbe per certe sue caratteristiche come la distribuzione geografica visibile in questa immagine, uno studio dedicato.

Netlog popularity Google Insight heat map
Netlog popularity Google Insight heat map

Come accennato l’utenza italiana di Facebook è esplosa durante il 2008. Stando ai dati raccolti, nel segmento 16-19 anni si registra una crescita del 232% nel corso degli ultimi 8 mesi. Nello stesso periodo dell’anno e per lo stesso segmento di popolazione Badoo è cresciuto del 24% (la comparazione si basa sulla supposizione che gli utenti come meno di 18 anni su Badoo si attribuiscano un età superiore).

Per comodità ho raccolto questi dati in un foglio di calcolo di Google.

Chi lo desideri è dunque libero di analizzare questi dati come meglio crede o di creare un foglio di calcolo analogo con dati aggiornati in futuro.

Analizzando questi dati ho notato che:

  1. Fino a 25 anni gli utenti di Facebook sono più donne che uomini mentre per Badoo questo avviene solo nel segmento dei diciottenni;
  2. 25 anni è per Facebook il discrimine a partire dal quale il numero degli utenti descresce;
  3. La distribuzione di età degli utenti di Badoo è significativamente più schiacciata verso i giovani rispetto a Facebook.
Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)
Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)

Confrontando le curve della distribuzione di età con quelle pubblicate in questo studio di Rapleaf appare evidente che la popolazione di Facebook in Italia è molto più adulta di quanto lo sia in media. Al contrario la curva di Badoo più simile a quella media dei SNSs dedicati ai giovani.

via Rapleaf Report
via Rapleaf Report

Anche il dato relativo al genere merita attenzione perché conferma un trend già evidenziatosi altrove (PEW e Rapleaf).

Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia
Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia

Anche in Italia, le ragazze usano i social network più degli uomini e minore è l’età del segmento che si prende in esame maggiore è questa differenza. In media l’utenza di Badoo è molto più sbilianciata in termini di genere a favore dei maschi (65% maschi, 35% femmine) mentre in Facebook non si notano differenze significative (47% Maschi, 45% Femmine).

Altri dati interessanti per completare il quadro del confronto possono essere ottenuti utilizzando Google Trends for Websites che, a differenza del servizio citato in precedenza, stima il volume di traffico verso un certo sito. Si veda questo post di Vincenzo Cosenza ed i relativi commenti. In particolare è interessante confrontare i siti che i visitatori di Facebook e Badoo visitano più spesso. Ne escono due profili di utenza completamente diversi.

Uno spunto che potrebbe essere interessante seguire è quello di confrontare le tipologie di siti “Also visited” fra Italia e altre nazioni su i principali SNSs.

Questo è il quadro di riferimento complessivo che sono riuscito a ricostruire fino a questo momento.

Dal complesso di questi dati mi sembra possibile formulare alcune ipotesi che vale la pena approfondire attraverso i focus group nella fase successiva del lavoro.

  1. In una prospettiva di capitale sociale mi sembra che Badoo sia uno strumento più orientato al bridging e Facebook al bonding ovvero a rinsaldare le amicizie eistenti;
  2. La distribuzione geografica della popolazione dei due SNSs (analisi che potrebbe essere approfondita prendendo i dati dei profili x singola provincia su Badoo | anyone interested to help?) lascia immaginare che le diverse variabili economiche e socio-demografiche che caratterizzano il sud, il centro ed il nord italia possano influenzare la scelta della piattaforma di social network preferita;
  3. Sembra ipotizzabile fra Badoo e Facebook in Italia un divario analogo a quello che danah boyd ha notato fra MySpace e Facebook negli Stati Uniti;
  4. Poichè i profili di Badoo sono pubblici (basta avere il link diretto al profilo o ad uno dei contenuti) mentre quelli di Facebook sono visibili di default solo al proprio network è ipotizzabile anche che gli utenti di Badoo percepiscano meno il problema della privacy in rete. L’ipotesi è che non esista una chiara percezione di quanto pubblico sia un contenuto esposto in rete e che la maturazione di questa consapevolezza sia un’indice di uso più maturo della rete. [Il fatto che tutto sia così pubblico su Badoo potrebbe consentire ricerche semi-automatizzate basate sulla tecnica dello scraping dei contenuti e dei commenti e la navigazione di profilo in profilo seguendo i link dei friends | any tech guy interested to help?]

Nei prossimi giorni ho intenzione di promuovere una survery via web (anche se non era prevista inizialmente) e pubblicherò il protocollo dei focus group in modo che chiunque voglia aiutarmi possa intervistare un gruppo di utenti di Facebook e Badoo e spedirimi poi il file audio o la trascrizione o semplicemente le sue impressioni (contattatemi se siete interessati).

Come al solito mi interessa sentire il vostro parere, le vostre sensazioni, le vostre opinioni ed i suggerimenti nei commenti.

Il prossimo appuntamento con What’s Next è venerdì 12 settembre nel frattempo c’è friendfeed.

I siti di social network (SNSs) come MySpace, Facebook, Orkut, Friendster o Bebo, da quando sono comparsi, hanno attratto milioni di utenti in tutto il mondo. Pur trattandosi di un successo globale un attento esame delle piattaforme più usate in ciascuna nazione può evidenziare percorsi di domesticazione anche molto diversi motivati da differenze culturali, ragioni storiche e caratteristiche specifiche di ogni singolo sito di social network.

A questo tema sarà dedicato il panel Social Network Site in national context a cui parteciperò durante la conferenza IR 9.0: Rethinking Communities, Rethinking Place (qualche altro italiano viene?).

Secondo un recente studio pubblicato da comScore (ben descritto in questo post da Vincenzo Cosenza) mentre in Nord America si è raggiunto un livello di adozione che non lascia molti spazi per incrementi percentuali significativi, i SNSs si stanno rapidamente diffondendo in tutti gli altri continenti.

In questo senso è particolarmente interessante lo studio realizzato dall’azienda svedese Royal Pingdom che sfruttando il servizio Google Insight for Search ha comparato l’attenzione locale verso i principali siti di social network in modo simile a quanto avevo fatto tempo fa usando Google Trends. Google Insight for Search premette di comparare il volume di ricerche generato da due o più parole chiave su Google. Al tempo stesso il servizio consente di limitare geograficamente le ricerche per comparare l’uso di una stessa parola chiave in due o più nazioni diverse.

Usando la stessa tecnica e rappresentazione grafica ho analizzato e creato una heat map  con i dati per un sesto social network non incluso nello studio di Royal Pingdom.

Il risultato, visibile nella slide 7, conferma come già notato in precedenza la popolarità di Badoo in Italia.

The Italian way to SNSs

View SlideShare presentation or Upload your own. (tags: sns facebook)

Lo scopo della ricerca che sto conducendo è proprio di comprendere i motivi di questo successo locale verificando se esistano delle variabili culturali, economiche o demografiche proprie del nostro Paese o caratteristiche specifiche del servizio in questione che lo giustifichino.

Allo scopo di meglio strutturare la ricerca ho deciso di confrontare Facebook, il social network più popolare del momento nel mondo, con Badoo nello specifico del nostro contesto nazionale. Un buon punto di partenza per conoscere la storia di questi due servizi sono le rispettive pagine su Wikipedia: Facebook e Badoo.

Per i lettori non abituali di questo blog segnalo i precedenti post in cui ho discusso alcuni aspetti di questo stesso tema:

Alla data di scrittura di questo articolo Badoo dichiara oltre 2.500.000 profili utente mentre Facebook qualcosa più di 600.000 (con una crescita straordinaria che è iniziata nel 2008 e non accenna ad arrestarsi). I dati sono stati ottenuti con specifiche interrogazioni all’interno dei due siti compiendo operazioni facilmente ripetibili da chiunque (si veda qui come fare per Facebook). La fonte è dunque lo stesso gestore del servizio e non di terze parti.

Lo studio che ho progettato è strutturato in più fasi:

  1. Una survey telefonica su un campione rappresentativo della popolazione italiana sopra i 18 anni (N = 1600) volta a costruire un quadro generale del fenomeno;
  2. Un confronto quantitativo sulle caratteristiche anagrafiche della popolazione di utenti di Facebook e Badoo con dati reperiti in diversi periodo a partire da dicembre 2007;
  3. Due focus group di 8 utenti ciascuno (due gruppi con oltre e meno di 25 anni) per ciascun sito di social network (ma sarebbe necessario farne molte di più | anyone interested to help?).

Allo stato di scrittura di questo post le fasi 1 (i cui risultati sono stati ampiamente diffusi e commentati in rete) e 2 sono state completate.

Questo post fa il punto sullo stato di avanzamento di questa ricerca in relazione specificamente alla fase 2.

Uno dei risultati principali a cui sono giunto è ben riassunto nella seguente heat map realizzata con la stessa tecnica e strumento descritti in precedenza.

Facebook & Badoo Google Insight heat map
Facebook & Badoo Google Insight heat map

Come si può facilmente notare anche all’interno di una stessa nazione la popolarità dei siti di social network è vincolata geograficamente. Il confronto fra queste due mappe suggerisce che Facebook sia prevalentemente usato nel nord Italia e Badoo nel centro e sopratutto a Sud.

Questa mappa manca tuttavia di un terzo protagonista importante che pur non essendo parte specifica della ricerca non può essere ignorato.

Netlog è infatti secondo in popolarità solo a Badoo (anche se a guardare il trend dell’ultimo mese sembra averlo addirittura superato) e pur non essendo stato possibile recuperare il numero complessivo degli utenti italiani è facile comprendere le dimensioni del fenomeno osservando questa immagine.

Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy (retrived August 2008)
Google Insights compairson between Facebook, Badoo and Netlog in Italy

Interessante anche la mappa di calore di Netlog che, pur non essendo un fenomeno specificamente italiano come Badoo, meriterebbe per certe sue caratteristiche come la distribuzione geografica visibile in questa immagine, uno studio dedicato.

Netlog popularity Google Insight heat map
Netlog popularity Google Insight heat map

Come accennato l’utenza italiana di Facebook è esplosa durante il 2008. Stando ai dati raccolti, nel segmento 16-19 anni si registra una crescita del 232% nel corso degli ultimi 8 mesi. Nello stesso periodo dell’anno e per lo stesso segmento di popolazione Badoo è cresciuto del 24% (la comparazione si basa sulla supposizione che gli utenti come meno di 18 anni su Badoo si attribuiscano un età superiore).

Per comodità ho raccolto questi dati in un foglio di calcolo di Google.

Chi lo desideri è dunque libero di analizzare questi dati come meglio crede o di creare un foglio di calcolo analogo con dati aggiornati in futuro.

Analizzando questi dati ho notato che:

  1. Fino a 25 anni gli utenti di Facebook sono più donne che uomini mentre per Badoo questo avviene solo nel segmento dei diciottenni;
  2. 25 anni è per Facebook il discrimine a partire dal quale il numero degli utenti descresce;
  3. La distribuzione di età degli utenti di Badoo è significativamente più schiacciata verso i giovani rispetto a Facebook.
Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)
Percentuale di utenti Facebook e Badoo in Italia (< 50 anni)

Confrontando le curve della distribuzione di età con quelle pubblicate in questo studio di Rapleaf appare evidente che la popolazione di Facebook in Italia è molto più adulta di quanto lo sia in media. Al contrario la curva di Badoo più simile a quella media dei SNSs dedicati ai giovani.

via Rapleaf Report
via Rapleaf Report

Anche il dato relativo al genere merita attenzione perché conferma un trend già evidenziatosi altrove (PEW e Rapleaf).

Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia
Differenze di genere in Facebook e Badoo in Italia

Anche in Italia, le ragazze usano i social network più degli uomini e minore è l’età del segmento che si prende in esame maggiore è questa differenza. In media l’utenza di Badoo è molto più sbilianciata in termini di genere a favore dei maschi (65% maschi, 35% femmine) mentre in Facebook non si notano differenze significative (47% Maschi, 45% Femmine).

Altri dati interessanti per completare il quadro del confronto possono essere ottenuti utilizzando Google Trends for Websites che, a differenza del servizio citato in precedenza, stima il volume di traffico verso un certo sito. Si veda questo post di Vincenzo Cosenza ed i relativi commenti. In particolare è interessante confrontare i siti che i visitatori di Facebook e Badoo visitano più spesso. Ne escono due profili di utenza completamente diversi.

Uno spunto che potrebbe essere interessante seguire è quello di confrontare le tipologie di siti “Also visited” fra Italia e altre nazioni su i principali SNSs.

Questo è il quadro di riferimento complessivo che sono riuscito a ricostruire fino a questo momento.

Dal complesso di questi dati mi sembra possibile formulare alcune ipotesi che vale la pena approfondire attraverso i focus group nella fase successiva del lavoro.

  1. In una prospettiva di capitale sociale mi sembra che Badoo sia uno strumento più orientato al bridging e Facebook al bonding ovvero a rinsaldare le amicizie eistenti;
  2. La distribuzione geografica della popolazione dei due SNSs (analisi che potrebbe essere approfondita prendendo i dati dei profili x singola provincia su Badoo | anyone interested to help?) lascia immaginare che le diverse variabili economiche e socio-demografiche che caratterizzano il sud, il centro ed il nord italia possano influenzare la scelta della piattaforma di social network preferita;
  3. Sembra ipotizzabile fra Badoo e Facebook in Italia un divario analogo a quello che danah boyd ha notato fra MySpace e Facebook negli Stati Uniti;
  4. Poichè i profili di Badoo sono pubblici (basta avere il link diretto al profilo o ad uno dei contenuti) mentre quelli di Facebook sono visibili di default solo al proprio network è ipotizzabile anche che gli utenti di Badoo percepiscano meno il problema della privacy in rete. L’ipotesi è che non esista una chiara percezione di quanto pubblico sia un contenuto esposto in rete e che la maturazione di questa consapevolezza sia un’indice di uso più maturo della rete. [Il fatto che tutto sia così pubblico su Badoo potrebbe consentire ricerche semi-automatizzate basate sulla tecnica dello scraping dei contenuti e dei commenti e la navigazione di profilo in profilo seguendo i link dei friends | any tech guy interested to help?]

Nei prossimi giorni ho intenzione di promuovere una survery via web (anche se non era prevista inizialmente) e pubblicherò il protocollo dei focus group in modo che chiunque voglia aiutarmi possa intervistare un gruppo di utenti di Facebook e Badoo e spedirimi poi il file audio o la trascrizione o semplicemente le sue impressioni (contattatemi se siete interessati).

Come al solito mi interessa sentire il vostro parere, le vostre sensazioni, le vostre opinioni ed i suggerimenti nei commenti.

Il prossimo appuntamento con What’s Next è venerdì 12 settembre nel frattempo c’è friendfeed.

Insegnare ai "nativi" nello spazio mediato di rete

Solo per segnalare che Indire ha pubblicato un mio breve articolo che presenta il progetto Taccle (Teachers’ Aids on Creating Content for Learning Environments) di cui avevo parlato qualche tempo fa.

L’articolo riprende alcuni dei discorsi che avevo fatto durante l’Unconventional Conference organizzata qualche mese fa da alcuni studenti della Facoltà di Economia di uniurb.

P.S. Approfito per ringraziare Carlo Daniele per il bel lavoro di realizzazione del template di Joomla del sito Taccle.eu.

State of the Bet

Durante la due giorni di Udine ho avuto la conferma che lo stato della rete in Italia è una scommessa sulla quale dovremmo puntare il nostro futuro.

Qui non si tratta solo di computer, di cavi (o wireless) e neanche di social software o Web 2.0.

Si tratta piuttosto di fiducia.

Scommettere, ovvero assumersi il rischio di una qualsiasi impresa, è il primo passo per il successo e tutti gli amici arrivati dagli Stati Uniti lo hanno spiegato come meglio non si poteva. Quello che manca in Italia oggi è la fiducia nelle possibilità di riuscire. E senza fiducia, come dice un autore che mi è caro, non ci si potrebbe neppure "alzare dal letto ogni mattina". Saremmo assaliti da "una paura indeterminata e da un panico paralizzante".

Fiducia significa credere all’altro "di default" come qualcuno ha detto rispetto a quanto avviene ogni giorno fra gli imprenditori di Silicon Valley e verificare questa apertura di credito in corso d’opera. Significa creare legami di trust facili da creare e, se necessario, da cancellare.

Penso che riunire persone disposte ad accettare le scommesse in Italia sia oggi importante.

Per questo voglio ringraziare di cuore Paolo e Sergio per aver organizzato con cura, competenza ed impegno State of The Net.

Technorati tags:

M/F ratio in Facebook and Badoo user base


M/F ratio in Facebook and Badoo user base
Originally uploaded by FG@flickr.com

Stimolato dai commenti ricevuti nel post precedente ho deciso di approfondire la questione del rapporto fra maschi e femmine in Badoo e Facebook.
Non è difficile notare (sopratutto se avrete cliccato sull’immagine per ingrandirla) come il rapporto sia simile nelle diverse nazioni prese in esame. Allo stesso modo appare evidente e costante la differente composizione di genere dei due social networks presi in esame. Credo questo dipenda, come ha fatto notare Tommaso nei commenti, dalla effettiva diversità dei siti presi in considerazione.
A questo proposito è interessante considerare quanto recentemente scritto da Maz Hardey rispetto a quelli che lei ha definito stadi del social networking:

i) Stage one: Sociability or ‘being social’, where concern is to build up new points of contact and to maintain ‘old’ connections through interactions on SNSs.
ii) Stay two: Networkability or ‘being networked’, having built up networks of links these are then maintained through membership to an array of SNSs and across different social media hardware – so yes that wonderful piece of technology the iPhone!
iii) Stage three: Visibility or ‘being visible’, when networks of links are used to both cultivate and sustain interactions as well as to experience ‘being in touch’ with others. Social actions are confirmed by a ‘presence’ that is always contactable even if the user is ‘busy’ elsewhere.

La sensazione è che Badoo sia un social network incompleto da questo punto di vista perchè ha buone funzioni in relazione allo stadio 1 ma è molto carente nell’offrire l’esperienza di sentirsi in contatto cosa in cui invece eccelle Facebook.
Quindi rimane sempre in sospeso la questione di base.
Perchè gli italiani usano Badoo più di tutti?
Facebook and Badoo population by Country

Technorati tags: , ,

Le convenzioni dei nativi nello spazio mediato di rete

Appena tornato dall’unconventional conference.
Lo staff non convenzionale è stato delizioso ed efficiente. Mi sembra quindi doveroso ringraziare loro per l’invito e per l’impegno che hanno saputo dedicare alla realizzazione di un evento a cui credevano profondamente.
Non so se l’Università di Urbino si renda pienamente conto di quanto bene facciano eventi del genere fatti dagli studenti per gli studenti ma visto che il supporto economico per la realizzazione dell’unconventional conference arriva dai fondi che l’ateneo dedica alle attività studentesche mi sembra giusto dedicare anche allo staff istituzionale di uniurb un piccolo ringraziamento.
Dopo l’inquadramento della tematica “Marketing non Convenzionale” ad opera del Prof. Pencarelli (docente di strategia d’impresa alla Facoltà di Economia) e del Prof. Fluvio Fortezza (docente di Marketing all’Università di Ferrara), Valentina Tolomelli (Web Community Manager – Ducati Motor Holding) ha illustrato il caso di Desmoblog (il blog/community di Ducati). Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per chiedere a Valentina di raccontare gli aspetti critici dell’esperienza di Ducati. Una domanda in questo senso c’è stata ma purtroppo il tempo per la risposta non è stato sufficiente per sviscerare l’argomento come mi sarebbe piaciuto. Forse la conversazione proseguita durante il coffee break cui ho dovuto rinunciare per provare la presentazione che avrei usato subito dopo la pausa. Ci sarà di sicuro un’altra occasione.
Dopo il mio intervento di cui parlerò in coda è stato il turno del Prof. Laerte Sorini che ha descritto la nuova piattaforma di Web TV che sarà messa a disposizione dell’Università dalla Facoltà di Economia a partire dal prossimo anno. L’intervento purtroppo è stato funestato da problemi tecnici ma da quello che sono riuscito a capire (correggetemi se sbaglio), la piattaforma (mostrata in locale) è la stessa utilizzata dalla Technogym per la sua esperienza di WebTV di cui ho sentito parlare ma non sono riuscito a trovare traccia in rete. L’interfaccia del prodotto sembra ben studiata ma non ho capito bene quale siano i contenuti che si intende veicolare. Mi sarei aspettato maggiori dettagli da questo punto di vista. La mancanza di una strategia sui contenuti non mi fa sperare nulla di buono sul futuro di questo, per altri versi encomiabile, progetto. Il rischio cattedrale nel deserto mi sembra alto ma se Laerte è in ascolto mi farebbe piacere sentire il suo parere su questo tema.
A seguire l’attesissimo Alex Giordano (Docente di Marketing creativo, co-fondatore di NinjaMarketing.it e co-autore di “Marketing non Convenzionale – Viral, Guerrilla, Tribal e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno”) è entrato nello specifico del tema della conferenza mostrano diversi casi interessanti (tipo il famoso video virale Ronaldinho: Touch of Gold) collegati ad alcuni dei principi fondamentali di cui tratta il libro (almeno questo è quello che ho dedotto io anche se mi sembra che la cosa sia stata detta esplicitamente). Dietro l’intervento, volutamente leggero ed in gran parte dedicato a mostrare i casi, ho avuto la sensazione che vi fossero delle interessanti riflessioni teoriche. Durante il pranzo ho inoltre scoperto che Alex ha collaborato al progetto Luther Blissett da cui poi è nata la Wu Ming Foundation.
Infine Marco Bruns (Fondatore e Presidente A-Style) ha presentato il suo caso e descritto come la sua azienda sia passato da essere un logo (seppur geniale) ad essere un business da decine di milioni di euro di fatturato. Nel percorso che va dagli adesivi costati qualche centinaia di euro attaccati sui pali dei semafori di Milano alla sponsorizzazione di due gran premi del motomonidiale c’è una storia fatta di esperienza di marketing non convenzionale ai limiti della legalità che Marco ha saputo ben raccontare con l’entusiasmo di chi ha vissuto tutto questo da protagonista.
Anche se il marketing convenzionale o no che sia non è il mio settore devo dire che mi sono divertito e ascoltato diverse cose che non conoscevo.
Il mio intervento è stato dedicato come da titolo a descrivere le convenzioni dei nativi nello spazio mediato di rete. Partendo da un titolo come questo ho deciso di soffermarmi su due aspetti. Chi sono i nativi e cos’è lo spazio mediato di rete. Il tutto, per chi fosse interessato, è riassunto nelle presentazione che segue.

Durante l’intervento ho mostrato questo video che ha riscosso applausi a scena aperta dalla platea. Avrei potuto anche mostrare quest’altro video ma visto che era stato presentato di recente da Luca Conti al seminario di Web 2.0 101 ho preferito trovare qualcosa di alternativo.
Oltre al video mi preme dare il giusto tributo a tutte le fonti che ho utilizzato:

Tutte le fotografie ed immagini usate nella presentazione sono tratte da Flickr (fra quelle con licenza creative commons) o realizzate ad hoc. Le vignette sono invece tratte da gapinvoid e xkcd.
P.S. Già che ci sono ringrazio anche lukval che con il suo commento al blog dei ninja mi ha dato un fantastico spunto per esemplificare le proprietà dello spazio mediato di rete.

Verso una multiculturalità digitale

Ci sono post in grado di cambiare la prospettiva sul mondo.

L’ultimo di Henry Jenkins, per me, è uno di questi.

Di recente ho parlato spesso della dialettica fra “conversazioni dal basso” e “myspace per adulti”. L’ho fatto descrivendo quello che ho chiamato per semplicità espressiva e non senza un certo sarcasmo il “myspace per adulti” osservato dalla prospettiva delle “conversazioni dal basso”.

Raccontare l’epica lotta fra grassroots David e mainstream Golia è di certo affascinante. Prendere le parti del più debole in una lotta impari è una reazione naturale. Eppure Jenkins ci insegna in questo post che può esistere un obiettivo al tempo stesso più importante e difficile che (ab)battere Golia. Si può e si deve provare la strada della contaminazione e del dialogo. Sopratutto quando il divide fra Davide e Golia rischia di diventare una insanabile frattura culturale prima che generazionale.

Può essere utile ed anche divertente prendere in giro su un blog come questo “Il Corriere Adriatico” perché pubblica un trafiletto come questo.

Dare a David del nativo digitale e a Golia dell’immigrante può essere utile in una prima fase per ribaltare metaforicamente i rapporti di potere evidenziando che il fattore campo è decisamente a favore di David.

Può essere utile dimostrare le potenzialità di David nel mobilitare le masse (ma meglio sarebbe dire la moltitudine) attraverso le reti.

Tutto questo può contribuire a rendere Golia consapevole che nella diversità di David non c’è solo “la peggio gioventù” ma anche alcune “abilità straordinarie” che possono “salvare il mondo”.

Ma ribaltare semplicemente il rapporto asimmetrico non è abbastanza e non è affatto privo di insidie.

C’è il rischio che la distinzione nativi/immigrati faccia perdere di vista le differenze che ci sono nell’uno e nell’altro campo. Se essere immigrati è di certo difficile essere anagraficamente nativi senza averne le capacità e le caratteristiche è drammatico.

Ponendo tutta l’attenzione sul divario generazionale e digitale si rischia inoltre di perdere di vista il contesto di convergenza ed il ruolo importante che in tutto questo giocano e giocheranno i media tradizionali.

Ma la cosa peggiore è che nel ribaltare simmetricamente un rapporto asimmetrico si rischia di sottolineare una diversità ormai evidente laddove bisognerebbe cercare invece le vie del dialogo e della contaminazione culturale.

Ho la sensazione che il tema della multiculturalità digitale fra nativi e migranti assumerà nei prossimi anni (sopratutto nel nostro Paese dove il divario digitale si innesta su quello determinato dalla ingombrante presenza de “La Casta™”) un ruolo fondamentale.

Forse non c’è molto da imparare dal “MySpace per adulti” ma da alcuni adulti, specie quelli come Henry, certamente si.