Lost e i 7 principi del transmedia storytelling

L’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry JenkinsL’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry JenkinsL’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry Jenkins

[spoiler free]
Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).
Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.
Ma partiamo dalla definizione.
Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.
Ed ecco i sette principi:
1. Spreadability vs. Drillability
Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).
Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).
2. Continuity vs. Multiplicity
La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.
In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).
3. Immersion vs. Extractability
Jack Action Figure
Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.
Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.
4. Worldbuilding
Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.
Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?
5. Seriality
Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.
Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.
6. Subjectivity
Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)
Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.
7. Performance
A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.
[Photo uploaded on January 23, 2008 by Subspace]

[spoiler free]

Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).

Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.

Ma partiamo dalla definizione.

Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.

Ed ecco i sette principi:

1. Spreadability vs. Drillability

Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).

Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).

2. Continuity vs. Multiplicity

La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.

In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).

3. Immersion vs. Extractability

Jack Action Figure

Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.

Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.

4. Worldbuilding

Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.

Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?

5. Seriality

Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.

Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.

6. Subjectivity

Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)

Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.

7. Performance

A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.

[Photo uploaded on January 23, 2008 by Subspace]

[spoiler free]

Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).

Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.

Ma partiamo dalla definizione.

Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.

Ed ecco i sette principi:

1. Spreadability vs. Drillability

Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).

Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).

2. Continuity vs. Multiplicity

La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.

In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).

3. Immersion vs. Extractability

Jack Action Figure

Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.

Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.

4. Worldbuilding

Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.

Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?

5. Seriality

Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.

Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.

6. Subjectivity

Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)

Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.

7. Performance

A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.

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Facebook fra privacy e "trasparenza radicale"

Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.