Facebook fra privacy e "trasparenza radicale"

Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

What’s next #11: Prima e seconda generazione dei siti di social network in Italia

I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.


Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.
La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.
Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.
Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.
A seguire il Venezuela.
Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?
Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.
Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.
Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).
Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).
Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.
A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.
La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.
La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).
Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.
In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.
La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.
Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.
Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.
Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.
Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.
Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

What's next #8: Le impostazioni di privacy nel contesto d'uso (in Facebook e altrove)

danah boyd spiega sul suo blog alcuni segreti delle impostazioni di privacy ci Facebook ed invita gli sviluppatori a rendere più semplice e chiara la percezione di visibilità di un contenuto pubblicato da un utente. Ne scaturisce una riflessione ricca di stimoli ed una lettura istruttiva per chiunque abbia un account su un sito di social network.danah boyd spiega sul suo blog alcuni segreti delle impostazioni di privacy ci Facebook ed invita gli sviluppatori a rendere più semplice e chiara la percezione di visibilità di un contenuto pubblicato da un utente. Ne scaturisce una riflessione ricca di stimoli ed una lettura istruttiva per chiunque abbia un account su un sito di social network.danah boyd spiega sul suo blog alcuni segreti delle impostazioni di privacy ci Facebook ed invita gli sviluppatori a rendere più semplice e chiara la percezione di visibilità di un contenuto pubblicato da un utente. Ne scaturisce una riflessione ricca di stimoli ed una lettura istruttiva per chiunque abbia un account su un sito di social network.


Questo articolo è una traduzione del post pubblicato da danah boyd sul suo blog sotto il titolo “Putting Privacy Settings in the Context of Use (in Facebook and elsewhere)“.
Alcuni giorni fa gli occhi di Gilad si sono spalancati e mi ha chiamato per dare uno sguardo al suo computer. Era su Facebook ed aveva appena scoperto un buco nel sistema di privacy. Aveva massimizzato il suo news feed per ricevere quante più informazioni possibili sulle fotografie. Come risultato veniva regolarmente aggiornato quando i suoi Amici commentavano sulle foto degli altri compreso le foto di persone di cui non era amico o nello stesso network. Questo è corretto e va bene. Tuttavia ha anche scoperto che poteva cliccare su queste foto e, da lì, guardare l’intero album delle foto degli Amici dei suoi Amici. Una volta uno dei suo Amici era stato taggato in uno di questi album, lui poteva vedere l’intero album, anche se non l’intero profilo del possessore dell’album. Questo gli ha provocato una certa delirante felicità perché sentiva di poter accedere a delle fotografie alle quali non avrebbe dovuto accedere… e gli è piaciuto.
Ci sono molte spiegazioni del perché questo avvenga. Potrebbe essere un bug di Facebook. Più probabilmente si tratta del risultato delle scelte di persone che, attraverso il troppo complesso sistema di impostazioni della privacy di Facebook – che neanche Gilad conosceva – consentono alle fotografie in cui sono taggati di essere visibili agli Amici degli Amici. In entrambi i casi Gilad si è sentito come se stesse guardando foto che non erano state pensate per lui. Allo stesso modo scommetterei che gli Amici dei figli di sua sorella non immaginavano che taggando queste foto con i loro nomi avrebbero reso disponibile l’intero album al fratello.
Le impostazioni delle privacy di Facebook sono i più flessibili e confusionari dell’intera industria del settore. Più e più volte mi capita di intervistare teenagers (ed adulti) che pensano di aver scelto impostazioni di privacy che facessero una cosa e che rimangono sorpresi (e a volte spaventati) di apprendere che le impostazioni scelte fanno in realtà altro. Oltretutto, per via di cose come il tagging delle foto, la gente spesso non è a conoscenza della visibilità di un contenuto al quale non hanno direttamente contribuito.  La gente continua a mettersi nei casini perché manca il controllo che pensano di avere. E questo non riguarda solo i ragazzini. Maestri e professori  -siete proprio sicuri che le foto che i vostri amici taggano a vostro nome non siano visibili ai vostri studenti? Genitori – So che molti di voi si sono fatti un profilo per ficcare il naso nelle vite dei vostri figli… ora che i vostri ex-compagni di scuola delle superiori sono anche loro dentro non saranno mica i vostri figli a ficcare il naso nelle vostre? Le dinamiche di potere sono bastarde che tu abbia 16 o 40 anni.
Perché le impostazioni della privacy rimangono un processo astratto rimosso dal contesto del contenuto stesso? Le impostazioni della privacy non dovrebbero riguardare solo il controllo; dovrebbero essere una combinazione di consapevolezza, contesto e controllo. Bisognerebbe essere in grado di conoscere la visibilità di un atto al momento in cui esso è compiuto e quando si accede alle tracce dello stesso.
Sviluppatori di tecnologie… vi imploro…. mettere le informazioni di privacy nel contesto del contenuto stesso. Quando pubblico una foto in un album fatemi vedere una lista di TUTTI quelli che possono vedere quella foto. Quando guardo una foto in un profilo di qualcuno fatemi vedere l’elenco di tutti quelli che possono vedere quella foto prima che lasci un commento. Non riuscirete a far comprendere alla gente le dimensioni della visibilità facendogli modulare alcune impostazioni di privacy ogni qualche mese non avendo idea di cosa “Amici degli Amici” significhi in realtà. Se esistessero queste impostazioni ed uno potesse sapere prima di caricare una foto che essa sarà visibile a 5.000 persone inclusi 10 ex-amanti ci penserebbe due volte prima di farlo. Oppure andrebbero a cambiare le impostazioni di privacy.
In un mondo ideale nel quale un accesso complesso al controllo non distruggerebbe un database, avrei suggerito un sistema grazie al quale essere in grado di modificare la lista delle persone che possono accedere ad un particolare contenuto al momento del caricamento. Quindi se io posto una foto e mi accorgo che è visibile a 100 persone, potrei scorrere manualmente la lista e rimuovere 10 di queste persone senza dover creare un gruppo specifico formato da tutti meno quelli che intendo escludere. So che questo significa un disastro in un database e che non posso chiederlo… ancora. Dovremmo rendere funzioni combinatorie su grandi numeri computabili in tempi ragionevoli, giusto? ::wink:: Nel frattempo fatemi vedere almeno il livello di visibilità e datemi la possibilità di modificare le mie impostazioni generali nel contesto d’uso.
Francamente… non comprendo perché le aziende che producono sistemi informatici non lo facciano. È perché non volete che i vostri utenti scoprano quanto visibili i loro contenuti siano? È perché i vostri database relazionali sono diretti e ciò rende questa lista faticosa da calcolare? O ci sono altre ragioni che non riesco ad immaginare? Ma seriamente, se volete porre un freno a questo disastro sociale che deriva dal fatto che le persone scelgano in modo errato le loro impostazioni di privacy, perché non mettere queste informazioni nel contesto? Perché non fargli vedere quanto visibili siano i loro atti mettendo a disposizione un sistema di feedback che gli faccia vedere cosa sta succedendo? Per favore ditemi perché questo non è un approccio razionale!
Nel frattempo… per tutti gli altri… avete dato uno sguardo alle vostre impostazioni delle privacy di recente? Volete veramente che il vostro profilo venga fuori per primo quando la gente cerca il vostro nome su Google? Volete veramente che quelle foto taggate con il vostro nome siano visibili agli amici degli amici? O il vostro status update visibile a tutte le vostre network? Pensateci. Guardate le vostre impostazioni. Le vostre aspettative corrispondono a quello che queste impostazioni dicono?

Questo articolo è una traduzione del post pubblicato da danah boyd sul suo blog sotto il titolo “Putting Privacy Settings in the Context of Use (in Facebook and elsewhere)“.

Alcuni giorni fa gli occhi di Gilad si sono spalancati e mi ha chiamato per dare uno sguardo al suo computer. Era su Facebook ed aveva appena scoperto un buco nel sistema di privacy. Aveva massimizzato il suo news feed per ricevere quante più informazioni possibili sulle fotografie. Come risultato veniva regolarmente aggiornato quando i suoi Amici commentavano sulle foto degli altri compreso le foto di persone di cui non era amico o nello stesso network. Questo è corretto e va bene. Tuttavia ha anche scoperto che poteva cliccare su queste foto e, da lì, guardare l’intero album delle foto degli Amici dei suoi Amici. Una volta uno dei suo Amici era stato taggato in uno di questi album, lui poteva vedere l’intero album, anche se non l’intero profilo del possessore dell’album. Questo gli ha provocato una certa delirante felicità perché sentiva di poter accedere a delle fotografie alle quali non avrebbe dovuto accedere… e gli è piaciuto.

Ci sono molte spiegazioni del perché questo avvenga. Potrebbe essere un bug di Facebook. Più probabilmente si tratta del risultato delle scelte di persone che, attraverso il troppo complesso sistema di impostazioni della privacy di Facebook – che neanche Gilad conosceva – consentono alle fotografie in cui sono taggati di essere visibili agli Amici degli Amici. In entrambi i casi Gilad si è sentito come se stesse guardando foto che non erano state pensate per lui. Allo stesso modo scommetterei che gli Amici dei figli di sua sorella non immaginavano che taggando queste foto con i loro nomi avrebbero reso disponibile l’intero album al fratello.

Le impostazioni delle privacy di Facebook sono i più flessibili e confusionari dell’intera industria del settore. Più e più volte mi capita di intervistare teenagers (ed adulti) che pensano di aver scelto impostazioni di privacy che facessero una cosa e che rimangono sorpresi (e a volte spaventati) di apprendere che le impostazioni scelte fanno in realtà altro. Oltretutto, per via di cose come il tagging delle foto, la gente spesso non è a conoscenza della visibilità di un contenuto al quale non hanno direttamente contribuito.  La gente continua a mettersi nei casini perché manca il controllo che pensano di avere. E questo non riguarda solo i ragazzini. Maestri e professori  -siete proprio sicuri che le foto che i vostri amici taggano a vostro nome non siano visibili ai vostri studenti? Genitori – So che molti di voi si sono fatti un profilo per ficcare il naso nelle vite dei vostri figli… ora che i vostri ex-compagni di scuola delle superiori sono anche loro dentro non saranno mica i vostri figli a ficcare il naso nelle vostre? Le dinamiche di potere sono bastarde che tu abbia 16 o 40 anni.

Perché le impostazioni della privacy rimangono un processo astratto rimosso dal contesto del contenuto stesso? Le impostazioni della privacy non dovrebbero riguardare solo il controllo; dovrebbero essere una combinazione di consapevolezza, contesto e controllo. Bisognerebbe essere in grado di conoscere la visibilità di un atto al momento in cui esso è compiuto e quando si accede alle tracce dello stesso.

Sviluppatori di tecnologie… vi imploro…. mettere le informazioni di privacy nel contesto del contenuto stesso. Quando pubblico una foto in un album fatemi vedere una lista di TUTTI quelli che possono vedere quella foto. Quando guardo una foto in un profilo di qualcuno fatemi vedere l’elenco di tutti quelli che possono vedere quella foto prima che lasci un commento. Non riuscirete a far comprendere alla gente le dimensioni della visibilità facendogli modulare alcune impostazioni di privacy ogni qualche mese non avendo idea di cosa “Amici degli Amici” significhi in realtà. Se esistessero queste impostazioni ed uno potesse sapere prima di caricare una foto che essa sarà visibile a 5.000 persone inclusi 10 ex-amanti ci penserebbe due volte prima di farlo. Oppure andrebbero a cambiare le impostazioni di privacy.

In un mondo ideale nel quale un accesso complesso al controllo non distruggerebbe un database, avrei suggerito un sistema grazie al quale essere in grado di modificare la lista delle persone che possono accedere ad un particolare contenuto al momento del caricamento. Quindi se io posto una foto e mi accorgo che è visibile a 100 persone, potrei scorrere manualmente la lista e rimuovere 10 di queste persone senza dover creare un gruppo specifico formato da tutti meno quelli che intendo escludere. So che questo significa un disastro in un database e che non posso chiederlo… ancora. Dovremmo rendere funzioni combinatorie su grandi numeri computabili in tempi ragionevoli, giusto? ::wink:: Nel frattempo fatemi vedere almeno il livello di visibilità e datemi la possibilità di modificare le mie impostazioni generali nel contesto d’uso.

Francamente… non comprendo perché le aziende che producono sistemi informatici non lo facciano. È perché non volete che i vostri utenti scoprano quanto visibili i loro contenuti siano? È perché i vostri database relazionali sono diretti e ciò rende questa lista faticosa da calcolare? O ci sono altre ragioni che non riesco ad immaginare? Ma seriamente, se volete porre un freno a questo disastro sociale che deriva dal fatto che le persone scelgano in modo errato le loro impostazioni di privacy, perché non mettere queste informazioni nel contesto? Perché non fargli vedere quanto visibili siano i loro atti mettendo a disposizione un sistema di feedback che gli faccia vedere cosa sta succedendo? Per favore ditemi perché questo non è un approccio razionale!

Nel frattempo… per tutti gli altri… avete dato uno sguardo alle vostre impostazioni delle privacy di recente? Volete veramente che il vostro profilo venga fuori per primo quando la gente cerca il vostro nome su Google? Volete veramente che quelle foto taggate con il vostro nome siano visibili agli amici degli amici? O il vostro status update visibile a tutte le vostre network? Pensateci. Guardate le vostre impostazioni. Le vostre aspettative corrispondono a quello che queste impostazioni dicono?

Questo articolo è una traduzione del post pubblicato da danah boyd sul suo blog sotto il titolo “Putting Privacy Settings in the Context of Use (in Facebook and elsewhere)“.

Alcuni giorni fa gli occhi di Gilad si sono spalancati e mi ha chiamato per dare uno sguardo al suo computer. Era su Facebook ed aveva appena scoperto un buco nel sistema di privacy. Aveva massimizzato il suo news feed per ricevere quante più informazioni possibili sulle fotografie. Come risultato veniva regolarmente aggiornato quando i suoi Amici commentavano sulle foto degli altri compreso le foto di persone di cui non era amico o nello stesso network. Questo è corretto e va bene. Tuttavia ha anche scoperto che poteva cliccare su queste foto e, da lì, guardare l’intero album delle foto degli Amici dei suoi Amici. Una volta uno dei suo Amici era stato taggato in uno di questi album, lui poteva vedere l’intero album, anche se non l’intero profilo del possessore dell’album. Questo gli ha provocato una certa delirante felicità perché sentiva di poter accedere a delle fotografie alle quali non avrebbe dovuto accedere… e gli è piaciuto.

Ci sono molte spiegazioni del perché questo avvenga. Potrebbe essere un bug di Facebook. Più probabilmente si tratta del risultato delle scelte di persone che, attraverso il troppo complesso sistema di impostazioni della privacy di Facebook – che neanche Gilad conosceva – consentono alle fotografie in cui sono taggati di essere visibili agli Amici degli Amici. In entrambi i casi Gilad si è sentito come se stesse guardando foto che non erano state pensate per lui. Allo stesso modo scommetterei che gli Amici dei figli di sua sorella non immaginavano che taggando queste foto con i loro nomi avrebbero reso disponibile l’intero album al fratello.

Le impostazioni delle privacy di Facebook sono i più flessibili e confusionari dell’intera industria del settore. Più e più volte mi capita di intervistare teenagers (ed adulti) che pensano di aver scelto impostazioni di privacy che facessero una cosa e che rimangono sorpresi (e a volte spaventati) di apprendere che le impostazioni scelte fanno in realtà altro. Oltretutto, per via di cose come il tagging delle foto, la gente spesso non è a conoscenza della visibilità di un contenuto al quale non hanno direttamente contribuito.  La gente continua a mettersi nei casini perché manca il controllo che pensano di avere. E questo non riguarda solo i ragazzini. Maestri e professori  -siete proprio sicuri che le foto che i vostri amici taggano a vostro nome non siano visibili ai vostri studenti? Genitori – So che molti di voi si sono fatti un profilo per ficcare il naso nelle vite dei vostri figli… ora che i vostri ex-compagni di scuola delle superiori sono anche loro dentro non saranno mica i vostri figli a ficcare il naso nelle vostre? Le dinamiche di potere sono bastarde che tu abbia 16 o 40 anni.

Perché le impostazioni della privacy rimangono un processo astratto rimosso dal contesto del contenuto stesso? Le impostazioni della privacy non dovrebbero riguardare solo il controllo; dovrebbero essere una combinazione di consapevolezza, contesto e controllo. Bisognerebbe essere in grado di conoscere la visibilità di un atto al momento in cui esso è compiuto e quando si accede alle tracce dello stesso.

Sviluppatori di tecnologie… vi imploro…. mettere le informazioni di privacy nel contesto del contenuto stesso. Quando pubblico una foto in un album fatemi vedere una lista di TUTTI quelli che possono vedere quella foto. Quando guardo una foto in un profilo di qualcuno fatemi vedere l’elenco di tutti quelli che possono vedere quella foto prima che lasci un commento. Non riuscirete a far comprendere alla gente le dimensioni della visibilità facendogli modulare alcune impostazioni di privacy ogni qualche mese non avendo idea di cosa “Amici degli Amici” significhi in realtà. Se esistessero queste impostazioni ed uno potesse sapere prima di caricare una foto che essa sarà visibile a 5.000 persone inclusi 10 ex-amanti ci penserebbe due volte prima di farlo. Oppure andrebbero a cambiare le impostazioni di privacy.

In un mondo ideale nel quale un accesso complesso al controllo non distruggerebbe un database, avrei suggerito un sistema grazie al quale essere in grado di modificare la lista delle persone che possono accedere ad un particolare contenuto al momento del caricamento. Quindi se io posto una foto e mi accorgo che è visibile a 100 persone, potrei scorrere manualmente la lista e rimuovere 10 di queste persone senza dover creare un gruppo specifico formato da tutti meno quelli che intendo escludere. So che questo significa un disastro in un database e che non posso chiederlo… ancora. Dovremmo rendere funzioni combinatorie su grandi numeri computabili in tempi ragionevoli, giusto? ::wink:: Nel frattempo fatemi vedere almeno il livello di visibilità e datemi la possibilità di modificare le mie impostazioni generali nel contesto d’uso.

Francamente… non comprendo perché le aziende che producono sistemi informatici non lo facciano. È perché non volete che i vostri utenti scoprano quanto visibili i loro contenuti siano? È perché i vostri database relazionali sono diretti e ciò rende questa lista faticosa da calcolare? O ci sono altre ragioni che non riesco ad immaginare? Ma seriamente, se volete porre un freno a questo disastro sociale che deriva dal fatto che le persone scelgano in modo errato le loro impostazioni di privacy, perché non mettere queste informazioni nel contesto? Perché non fargli vedere quanto visibili siano i loro atti mettendo a disposizione un sistema di feedback che gli faccia vedere cosa sta succedendo? Per favore ditemi perché questo non è un approccio razionale!

Nel frattempo… per tutti gli altri… avete dato uno sguardo alle vostre impostazioni delle privacy di recente? Volete veramente che il vostro profilo venga fuori per primo quando la gente cerca il vostro nome su Google? Volete veramente che quelle foto taggate con il vostro nome siano visibili agli amici degli amici? O il vostro status update visibile a tutte le vostre network? Pensateci. Guardate le vostre impostazioni. Le vostre aspettative corrispondono a quello che queste impostazioni dicono?

What's next #2: Non credere a nessuno che abbia più di venticinque anni

L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.
Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.
Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.
Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.
I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.
Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.
La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.
E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.
Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.
Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.
Somministri il test ad un milione di persone.
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.
Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.
Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.
Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.
Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.
Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.
E questo solo per parlare dell’inefficacia.
La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.
Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.
E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).
Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.
Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).
Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.
Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.
Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.
La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.
Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).
Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.
Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.
Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.
L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.
Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.
Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.

Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).

Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.

Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.

L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.

Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.

Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

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Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

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What's Next?

Da settembre a dicembre un nuovo appuntamento settimanale su nextmedia & society. Ogni venerdì si parlerà di social networks, digital natives, privacy e tecnologie mobili.
Primo appuntamento il 5 settembre 2008.Da settembre a dicembre un nuovo appuntamento settimanale su nextmedia & society. Ogni venerdì si parlerà di social networks, digital natives, privacy e tecnologie mobili.
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Per chi se lo stesse chiedendo questo blog non ha chiuso.
Come ho già spiegato da tempo trovo la forma blog ormai eccessivamente lenta per fare quello che faccio più spesso: condividere e commentare gli articoli interessanti che trovo in rete.
La rapidità di queste segnalazioni e la brevità dei commenti non mi aiuta tuttavia ad allenare le capacità di scrittura e di costruzione di un testo. Ho infatti notato una maggiore difficoltà a scrivere da quando ho smesso di aggiornare con costanza questo spazio.
Per questo motivo ho deciso di pubblicare con cadenza settimanale (dal 5 settembre al 4 gennaio) un post lungo ed il più possibile curato nei contenuti e nella forma.
Una specie di rubrica settimanale che ho pensato di chiamare “What’s next”.
“What’s next” tratterà fra l’altro di social networks, digital natives, condivisione e community building for collective actions, privacy/publicy e geolocalizzazione/mobile media.
L’appuntamento è dunque per il 5 settembre con gli ultimi aggiornamenti sulla ricerca comparativa fra l’uso di Facebook e Badoo in Italia.

Geek And Poke: The Next Big Thing
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