ULOOP: come motivare la cooperazione degli utenti?

Sviluppare una tecnologia come ULOOP significa anche comprendere quali aspetti guidano il modellamento di una comunità e le motivazioni che spingono gli individui ad agire a favore di essa. Incentivi come premi o sanzioni non bastano, servono meccanismi più complessi che facciano leva, seguendo la tesi di Yochai Benkler, anche su aspetti spesso trascurati come empatia e solidarietà. Questi meccanismi, in ogni caso, sembrano lavorare su due livelli: sistemico e interpersonale.

Terzo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP a cura di Erica Giambitto.
Le ricerche sul capitale sociale, sulla sostenibilità sociale e la nostra attività nell’ambito di ULOOP hanno una domanda in comune: quali sono le motivazioni che spingono le persone appartenenti ad una stessa comunità a mettere a disposizione degli altri le proprio risorse e ad impegnarsi in prima persona per il bene collettivo?
In questo articolo cercheremo di capire come in ULOOP si è cercato di motivare la cooperazione degli utenti. L’innovazione di ULOOP si basa su due elementi chiave: considerare l’utente come una componente chiave dei servizi di rete e la creazione di wireless local loop on-the-fly. Questi sono realizzabili solo implementando meccanismi di gestione della fiducia e di incentivazione alla cooperazione (AA.VV. D.1.1: ULOOP User-Centric Wireless Local Loop, 2010).
Annche Yochai Benkler (Berkman Professor of Entrepreneurial Legal Studies, Harvard Law School, faculty co-director, Berkman Center for Internet and Society) riflette su come  creare sistemi basati su modelli cooperativi. Secondo Benkler l’utente deve essere considerato in tutte le sue sfaccettature, è importante, quindi, implementare nei sistemi cooperativi non solo incentivi di tipo materiale come premi e punizioni, ma anche di tipo sociale come empatia e solidarietà (Benkler, Y. The Penguin and The Leviathan, Crown Business, New York 2011).
Le caratteristiche chiave di ULOOP sono un valore che gli stessi utenti aggiungono al sistema, attraverso la loro partecipazione. Così la sostenibilità socio-economica di ULOOP dipende dalla densità di nodi presenti in un local loop (AA.VV. D2.2: ULOOP. Socio-economic sustainability report 2011) e dalla capacità del sistema di inserire gli utenti nella catena del valore. Per questo gli utenti sono stati divisi in categorie e, a seconda degli effetti positivi, negativi e trascurabili di cui fanno esperienza, sono stati previsti incentivi specifici per stimolarne la cooperazione. Questo tipo di incentivi sono principalmente di tipo materiale, fanno cioè leva su vantaggi e svantaggi derivanti da una data situazione.
Nel primo White Paper dedicato a ULOOP viene sollevata una questione importante: la cooperazione dipende dalla volontà dei nodi (utenti) di partecipare, ma anche da elementi percepiti come negativi che disincentivano la partecipazione, tra cui la percezione della scarsità delle risorse e la mancanza di fiducia tra gli utenti.
Scarsità di risorse disponibili nel nodo.
L’idea di condividere una risorsa finita, ad esempio l’ampiezza di banda o la capacità di processing del device, potrebbe disincentivare la cooperazione. Per questo  ULOOP incentiva lo scambio di risorse tra utenti permettendo loro di contribuire con la risorsa che hanno maggiormente a disposizione, o che in quel momento usano meno. Così l’utente che contribuisce, guadagna il diritto di ricevere la risorsa di cui ha bisogno nel momento più adatto alle sue esigenze. La risorsa che riceverà in cambio è stata condivisa da un altro utente, dunque è frutto di un’altra scelta individuale. Lo scambio non è negoziato autonomamente dai due utenti ma è gestito automaticamente dal sistema ULOOP. Gli utenti fanno dunque affidamento sul suo funzionamento come garante dello scambio. Chi tiene un comportamento scorretto viene, mediante il meccanismo della social trust, identificato e sanzionato, ad esempio con una riduzione delle possibilità di accesso o una riduzione di banda.
Questo tipo di incentivo sembra basato sul concetto di fiducia sistemica (Luhman 1979, cit. in E. Keimolen, D. Broeders “Quando alcuni sono più uguali degli altri… Fiducia, free riding e azione collettiva in una rete P2P in Sociologia della Comunicazione n. 40, Franco Angeli, 2009, p. 94-95). Quando calati in un sistema complesso, in cui si relazionano in collettività ampie e con sconosciuti, gli utenti non godono di fiducia reciproca ma ripongono fiducia nelle capacità del sistema di gestire questi scambi e il rischio che altri non contribuiscano, li danneggino o abbandonino il sistema danneggiandolo. <<La fiducia sistemica viene allora costruita automaticamente attraverso continue esperienze positive (feedback)>> (ibidem).
Mancanza di fiducia tra gli utenti.
La cooperazione in un sistema di relazioni create on-the-fly tra utenti che non si conoscono personalmente, deve far fronte al problema della mancanza di fiducia a livello interpersonale. La mancanza di fiducia tra utenti dipende dalla loro scarsa conoscenza reciproca. ULOOP propone diversi incentivi per ovviare a questa mancanza, innanzitutto prevede un sistema di riconoscimento univoco dell’user ID, tutelandone al tempo stesso la privacy. Dà la possibilità di creare legami tra utenti basati su interessi condivisi (stesse tipologie di file, stesse abitudini) e un sistema di valutazione reciproca collettiva (informazioni SNR, individuazione di malicious users, Quality of Experience).
Questi incentivi richiamano ciò che la letteratura sull’azione collettiva definisce meccanismi regolativi (ibidem, p. 93): l’esclusione, la reputazione, la reciprocità (Becker, Clement 2006, cit. in ibidem, p. 103; R. Alexander The biology of moral systems, cit. in Benkler The penguin and the leviathan, Crown Business, New York 2011, p. 42).
Dunque sembra che ULOOP gestisca le motivazioni alla cooperazione su due livelli. Un livello sistemico che crea fiducia nel funzionamento del sistema facendo leva sulle motivazioni strumentali alla cooperazione (Portes Alejandro, SOCIAL CAPITAL: Its Origins and Applications in Modern Sociology Annu. Rev. Sociol. 1998, pp.1-24). Si basano sulla enforceable trust, cioè il senso di appartenenza ad una comunità la cui esistenza è percepita come garanzia che il contributo dato verrà ripagato. Un livello interpersonale, che fa leva sulle motivazioni consumatorie alla cooperazione basate sulla bounded solidarity, per cui un individuo agisce per il bene collettivo anche se ad un costo personale, perché si sente parte del gruppo e si identifica in esso.
Sembra che anche Benkler lavori su questi due livelli, anche se non esplicitamente. Egli individua degli elementi chiave da implementare in un sistema perché sia cooperativo.

  1. Comunicazione: nella costruzione di un sistema cooperativo è fondamentale implementare la possibilità di comunicare tra gli utenti e, in maniera altrettanto importante, stimolare un processo di negoziazione e mediazione tra i punti di vista differenti. La comunicazione fa sviluppare empatia e fiducia negli altri, aiutando nella risoluzione di problemi.
  2. Empatia e Solidarietà: immedesimarsi in qualcun altro, provare le stesse emozioni e talvolta le stesse sensazioni (empatia) così come identificarsi in un gruppo (solidarietà), rende gli utenti disposti a sopportare un costo personale per il benessere del gruppo a cui sentono di appartenere. Per stimolare questo processo è importante umanizzare le persone, permettere di sapere chi sono e perché necessitano dell’aiuto o contributo di altri.
  3. Framing: creare un frame, un contesto che descriva il sistema come cooperativo, come una comunità, orientando l’interpretazione del sistema da parte degli utenti rendendoli maggiormente disposti alla cooperazione. Il frame, però, funziona solo se costruito sulla verità. Il sistema deve veramente essere progettato come cooperativo, altrimenti, non rispondendo alle aspettative degli utenti, si svuoterebbe dopo poco tempo.
  4. Reputazione, trasparenza e reciprocità: i sistemi che si basano sulla reciprocità, soprattutto quella indiretta, sono facilmente invasi da utenti che attingono al sistema senza contribuire, basta pensare al fenomeno dei free riders (Benkler 2011). La reputazione è lo strumento più importante che si ha per sostenere il sistema ma per essere veramente efficace necessita che l’identità delle persone coinvolte sia visibile e trasparente, sempre nei limiti della privacy.
  5. Equità, moralità, norme sociali: se percepiamo il sistema in cui siamo inseriti come  equo, siamo più predisposti a cooperare. Basarsi solo su incentivi e punizioni può essere controproducente, è necessario pensare se e come il nostro sistema risulti equo. Moralità: definire chiaramente i valori, discutendone, spiegandoli, evidenziando qual è la cosa che si ritiene giusta da fare in ogni situazione. Social Norms: Le norme sociali sono un codice che orientano il comportamento ma non sono stabilite a priori, sono emergenti, per questo generalmente la maggior parte delle persone tende a seguirle. Rendere trasparente il comportamento degli altri nelle diverse situazioni permetterà di conformarsi con ciò che è ritenuto “normale”.
  6. Modularità: cooperare ha un costo, è come l’impegno in una attività, una spesa economica per l’accesso a un servizio, la rinuncia ad una risorsa a favore di qualcun altro. Dunque uno dei primi elementi da attivare per incentivare la cooperazione è consentire la partecipazione per piccoli moduli di contribuito, permettendo a ciascuno di cooperare secondo le possibilità e disponibilità del momento.
  7. Premi e punizioni: siano essi materiali (ottenimento di vantaggi per il singolo), oppure sociali (raggiungimento di un benessere comune) ma sempre dati in base alle motivazioni degli utenti. Dare premi materiali a qualcuno che coopera alla comunità perché interessato al bene comune o, viceversa, premiare con la reputazione qualcuno interessato ad un aumento di risorse materiali, potrebbe causarne l’allontanamento spontaneo dalla comunità.
  8. Flessibilità: è necessario tenere presente i diversi profili motivazionali, anche quelli poco produttivi, perciò i sistemi che si avvalgono della cooperazione devono essere flessibili e consentire una contribuzione asimmetrica, sfruttando il principio della coda lunga.

Anche gli elementi suggeriti da Benkler si possono raggruppare e implementare nei due livelli di motivazione alla cooperazione: sistemico e interpersonale.
Comunicazione, empatia, solidarietà, reputazione, trasparenza, reciprocità e framing possono essere utili strumenti per costruire, a un livello interpersonale, la fiducia reciproca tra gli utenti, contribuendo a realizzare l’identificazione nel gruppo e a rafforzare la bounded solidarity.
Equità, moralità, norme sociali, modularità, premi, punizioni e flessibilità possono essere utili strumenti, a livello sistemico, per costruire la fiducia sistemica, contribuendo a rafforzare il senso di appartenenza alla comunità e la enforceable trust.Terzo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP a cura di Erica Giambitto.
Le ricerche sul capitale sociale, sulla sostenibilità sociale e la nostra attività nell’ambito di ULOOP hanno una domanda in comune: quali sono le motivazioni che spingono le persone appartenenti ad una stessa comunità a mettere a disposizione degli altri le proprio risorse e ad impegnarsi in prima persona per il bene collettivo?
In questo articolo cercheremo di capire come in ULOOP si è cercato di motivare la cooperazione degli utenti. L’innovazione di ULOOP si basa su due elementi chiave: considerare l’utente come una componente chiave dei servizi di rete e la creazione di wireless local loop on-the-fly. Questi sono realizzabili solo implementando meccanismi di gestione della fiducia e di incentivazione alla cooperazione (AA.VV. D.1.1: ULOOP User-Centric Wireless Local Loop, 2010).
Annche Yochai Benkler (Berkman Professor of Entrepreneurial Legal Studies, Harvard Law School, faculty co-director, Berkman Center for Internet and Society) riflette su come  creare sistemi basati su modelli cooperativi. Secondo Benkler l’utente deve essere considerato in tutte le sue sfaccettature, è importante, quindi, implementare nei sistemi cooperativi non solo incentivi di tipo materiale come premi e punizioni, ma anche di tipo sociale come empatia e solidarietà (Benkler, Y. The Penguin and The Leviathan, Crown Business, New York 2011).
Le caratteristiche chiave di ULOOP sono un valore che gli stessi utenti aggiungono al sistema, attraverso la loro partecipazione. Così la sostenibilità socio-economica di ULOOP dipende dalla densità di nodi presenti in un local loop (AA.VV. D2.2: ULOOP. Socio-economic sustainability report 2011) e dalla capacità del sistema di inserire gli utenti nella catena del valore. Per questo gli utenti sono stati divisi in categorie e, a seconda degli effetti positivi, negativi e trascurabili di cui fanno esperienza, sono stati previsti incentivi specifici per stimolarne la cooperazione. Questo tipo di incentivi sono principalmente di tipo materiale, fanno cioè leva su vantaggi e svantaggi derivanti da una data situazione.
Nel primo White Paper dedicato a ULOOP viene sollevata una questione importante: la cooperazione dipende dalla volontà dei nodi (utenti) di partecipare, ma anche da elementi percepiti come negativi che disincentivano la partecipazione, tra cui la percezione della scarsità delle risorse e la mancanza di fiducia tra gli utenti.
Scarsità di risorse disponibili nel nodo.
L’idea di condividere una risorsa finita, ad esempio l’ampiezza di banda o la capacità di processing del device, potrebbe disincentivare la cooperazione. Per questo  ULOOP incentiva lo scambio di risorse tra utenti permettendo loro di contribuire con la risorsa che hanno maggiormente a disposizione, o che in quel momento usano meno. Così l’utente che contribuisce, guadagna il diritto di ricevere la risorsa di cui ha bisogno nel momento più adatto alle sue esigenze. La risorsa che riceverà in cambio è stata condivisa da un altro utente, dunque è frutto di un’altra scelta individuale. Lo scambio non è negoziato autonomamente dai due utenti ma è gestito automaticamente dal sistema ULOOP. Gli utenti fanno dunque affidamento sul suo funzionamento come garante dello scambio. Chi tiene un comportamento scorretto viene, mediante il meccanismo della social trust, identificato e sanzionato, ad esempio con una riduzione delle possibilità di accesso o una riduzione di banda.
Questo tipo di incentivo sembra basato sul concetto di fiducia sistemica (Luhman 1979, cit. in E. Keimolen, D. Broeders “Quando alcuni sono più uguali degli altri… Fiducia, free riding e azione collettiva in una rete P2P in Sociologia della Comunicazione n. 40, Franco Angeli, 2009, p. 94-95). Quando calati in un sistema complesso, in cui si relazionano in collettività ampie e con sconosciuti, gli utenti non godono di fiducia reciproca ma ripongono fiducia nelle capacità del sistema di gestire questi scambi e il rischio che altri non contribuiscano, li danneggino o abbandonino il sistema danneggiandolo. <<La fiducia sistemica viene allora costruita automaticamente attraverso continue esperienze positive (feedback)>> (ibidem).
Mancanza di fiducia tra gli utenti.
La cooperazione in un sistema di relazioni create on-the-fly tra utenti che non si conoscono personalmente, deve far fronte al problema della mancanza di fiducia a livello interpersonale. La mancanza di fiducia tra utenti dipende dalla loro scarsa conoscenza reciproca. ULOOP propone diversi incentivi per ovviare a questa mancanza, innanzitutto prevede un sistema di riconoscimento univoco dell’user ID, tutelandone al tempo stesso la privacy. Dà la possibilità di creare legami tra utenti basati su interessi condivisi (stesse tipologie di file, stesse abitudini) e un sistema di valutazione reciproca collettiva (informazioni SNR, individuazione di malicious users, Quality of Experience).
Questi incentivi richiamano ciò che la letteratura sull’azione collettiva definisce meccanismi regolativi (ibidem, p. 93): l’esclusione, la reputazione, la reciprocità (Becker, Clement 2006, cit. in ibidem, p. 103; R. Alexander The biology of moral systems, cit. in Benkler The penguin and the leviathan, Crown Business, New York 2011, p. 42).
Dunque sembra che ULOOP gestisca le motivazioni alla cooperazione su due livelli. Un livello sistemico che crea fiducia nel funzionamento del sistema facendo leva sulle motivazioni strumentali alla cooperazione (Portes Alejandro, SOCIAL CAPITAL: Its Origins and Applications in Modern Sociology Annu. Rev. Sociol. 1998, pp.1-24). Si basano sulla enforceable trust, cioè il senso di appartenenza ad una comunità la cui esistenza è percepita come garanzia che il contributo dato verrà ripagato. Un livello interpersonale, che fa leva sulle motivazioni consumatorie alla cooperazione basate sulla bounded solidarity, per cui un individuo agisce per il bene collettivo anche se ad un costo personale, perché si sente parte del gruppo e si identifica in esso.
Sembra che anche Benkler lavori su questi due livelli, anche se non esplicitamente. Egli individua degli elementi chiave da implementare in un sistema perché sia cooperativo.

  1. Comunicazione: nella costruzione di un sistema cooperativo è fondamentale implementare la possibilità di comunicare tra gli utenti e, in maniera altrettanto importante, stimolare un processo di negoziazione e mediazione tra i punti di vista differenti. La comunicazione fa sviluppare empatia e fiducia negli altri, aiutando nella risoluzione di problemi.
  2. Empatia e Solidarietà: immedesimarsi in qualcun altro, provare le stesse emozioni e talvolta le stesse sensazioni (empatia) così come identificarsi in un gruppo (solidarietà), rende gli utenti disposti a sopportare un costo personale per il benessere del gruppo a cui sentono di appartenere. Per stimolare questo processo è importante umanizzare le persone, permettere di sapere chi sono e perché necessitano dell’aiuto o contributo di altri.
  3. Framing: creare un frame, un contesto che descriva il sistema come cooperativo, come una comunità, orientando l’interpretazione del sistema da parte degli utenti rendendoli maggiormente disposti alla cooperazione. Il frame, però, funziona solo se costruito sulla verità. Il sistema deve veramente essere progettato come cooperativo, altrimenti, non rispondendo alle aspettative degli utenti, si svuoterebbe dopo poco tempo.
  4. Reputazione, trasparenza e reciprocità: i sistemi che si basano sulla reciprocità, soprattutto quella indiretta, sono facilmente invasi da utenti che attingono al sistema senza contribuire, basta pensare al fenomeno dei free riders (Benkler 2011). La reputazione è lo strumento più importante che si ha per sostenere il sistema ma per essere veramente efficace necessita che l’identità delle persone coinvolte sia visibile e trasparente, sempre nei limiti della privacy.
  5. Equità, moralità, norme sociali: se percepiamo il sistema in cui siamo inseriti come  equo, siamo più predisposti a cooperare. Basarsi solo su incentivi e punizioni può essere controproducente, è necessario pensare se e come il nostro sistema risulti equo. Moralità: definire chiaramente i valori, discutendone, spiegandoli, evidenziando qual è la cosa che si ritiene giusta da fare in ogni situazione. Social Norms: Le norme sociali sono un codice che orientano il comportamento ma non sono stabilite a priori, sono emergenti, per questo generalmente la maggior parte delle persone tende a seguirle. Rendere trasparente il comportamento degli altri nelle diverse situazioni permetterà di conformarsi con ciò che è ritenuto “normale”.
  6. Modularità: cooperare ha un costo, è come l’impegno in una attività, una spesa economica per l’accesso a un servizio, la rinuncia ad una risorsa a favore di qualcun altro. Dunque uno dei primi elementi da attivare per incentivare la cooperazione è consentire la partecipazione per piccoli moduli di contribuito, permettendo a ciascuno di cooperare secondo le possibilità e disponibilità del momento.
  7. Premi e punizioni: siano essi materiali (ottenimento di vantaggi per il singolo), oppure sociali (raggiungimento di un benessere comune) ma sempre dati in base alle motivazioni degli utenti. Dare premi materiali a qualcuno che coopera alla comunità perché interessato al bene comune o, viceversa, premiare con la reputazione qualcuno interessato ad un aumento di risorse materiali, potrebbe causarne l’allontanamento spontaneo dalla comunità.
  8. Flessibilità: è necessario tenere presente i diversi profili motivazionali, anche quelli poco produttivi, perciò i sistemi che si avvalgono della cooperazione devono essere flessibili e consentire una contribuzione asimmetrica, sfruttando il principio della coda lunga.

Anche gli elementi suggeriti da Benkler si possono raggruppare e implementare nei due livelli di motivazione alla cooperazione: sistemico e interpersonale.
Comunicazione, empatia, solidarietà, reputazione, trasparenza, reciprocità e framing possono essere utili strumenti per costruire, a un livello interpersonale, la fiducia reciproca tra gli utenti, contribuendo a realizzare l’identificazione nel gruppo e a rafforzare la bounded solidarity.
Equità, moralità, norme sociali, modularità, premi, punizioni e flessibilità possono essere utili strumenti, a livello sistemico, per costruire la fiducia sistemica, contribuendo a rafforzare il senso di appartenenza alla comunità e la enforceable trust.Terzo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP a cura di Erica Giambitto.
Le ricerche sul capitale sociale, sulla sostenibilità sociale e la nostra attività nell’ambito di ULOOP hanno una domanda in comune: quali sono le motivazioni che spingono le persone appartenenti ad una stessa comunità a mettere a disposizione degli altri le proprio risorse e ad impegnarsi in prima persona per il bene collettivo?
In questo articolo cercheremo di capire come in ULOOP si è cercato di motivare la cooperazione degli utenti. L’innovazione di ULOOP si basa su due elementi chiave: considerare l’utente come una componente chiave dei servizi di rete e la creazione di wireless local loop on-the-fly. Questi sono realizzabili solo implementando meccanismi di gestione della fiducia e di incentivazione alla cooperazione (AA.VV. D.1.1: ULOOP User-Centric Wireless Local Loop, 2010).
Annche Yochai Benkler (Berkman Professor of Entrepreneurial Legal Studies, Harvard Law School, faculty co-director, Berkman Center for Internet and Society) riflette su come  creare sistemi basati su modelli cooperativi. Secondo Benkler l’utente deve essere considerato in tutte le sue sfaccettature, è importante, quindi, implementare nei sistemi cooperativi non solo incentivi di tipo materiale come premi e punizioni, ma anche di tipo sociale come empatia e solidarietà (Benkler, Y. The Penguin and The Leviathan, Crown Business, New York 2011).
Le caratteristiche chiave di ULOOP sono un valore che gli stessi utenti aggiungono al sistema, attraverso la loro partecipazione. Così la sostenibilità socio-economica di ULOOP dipende dalla densità di nodi presenti in un local loop (AA.VV. D2.2: ULOOP. Socio-economic sustainability report 2011) e dalla capacità del sistema di inserire gli utenti nella catena del valore. Per questo gli utenti sono stati divisi in categorie e, a seconda degli effetti positivi, negativi e trascurabili di cui fanno esperienza, sono stati previsti incentivi specifici per stimolarne la cooperazione. Questo tipo di incentivi sono principalmente di tipo materiale, fanno cioè leva su vantaggi e svantaggi derivanti da una data situazione.
Nel primo White Paper dedicato a ULOOP viene sollevata una questione importante: la cooperazione dipende dalla volontà dei nodi (utenti) di partecipare, ma anche da elementi percepiti come negativi che disincentivano la partecipazione, tra cui la percezione della scarsità delle risorse e la mancanza di fiducia tra gli utenti.
Scarsità di risorse disponibili nel nodo.
L’idea di condividere una risorsa finita, ad esempio l’ampiezza di banda o la capacità di processing del device, potrebbe disincentivare la cooperazione. Per questo  ULOOP incentiva lo scambio di risorse tra utenti permettendo loro di contribuire con la risorsa che hanno maggiormente a disposizione, o che in quel momento usano meno. Così l’utente che contribuisce, guadagna il diritto di ricevere la risorsa di cui ha bisogno nel momento più adatto alle sue esigenze. La risorsa che riceverà in cambio è stata condivisa da un altro utente, dunque è frutto di un’altra scelta individuale. Lo scambio non è negoziato autonomamente dai due utenti ma è gestito automaticamente dal sistema ULOOP. Gli utenti fanno dunque affidamento sul suo funzionamento come garante dello scambio. Chi tiene un comportamento scorretto viene, mediante il meccanismo della social trust, identificato e sanzionato, ad esempio con una riduzione delle possibilità di accesso o una riduzione di banda.
Questo tipo di incentivo sembra basato sul concetto di fiducia sistemica (Luhman 1979, cit. in E. Keimolen, D. Broeders “Quando alcuni sono più uguali degli altri… Fiducia, free riding e azione collettiva in una rete P2P in Sociologia della Comunicazione n. 40, Franco Angeli, 2009, p. 94-95). Quando calati in un sistema complesso, in cui si relazionano in collettività ampie e con sconosciuti, gli utenti non godono di fiducia reciproca ma ripongono fiducia nelle capacità del sistema di gestire questi scambi e il rischio che altri non contribuiscano, li danneggino o abbandonino il sistema danneggiandolo. <<La fiducia sistemica viene allora costruita automaticamente attraverso continue esperienze positive (feedback)>> (ibidem).
Mancanza di fiducia tra gli utenti.
La cooperazione in un sistema di relazioni create on-the-fly tra utenti che non si conoscono personalmente, deve far fronte al problema della mancanza di fiducia a livello interpersonale. La mancanza di fiducia tra utenti dipende dalla loro scarsa conoscenza reciproca. ULOOP propone diversi incentivi per ovviare a questa mancanza, innanzitutto prevede un sistema di riconoscimento univoco dell’user ID, tutelandone al tempo stesso la privacy. Dà la possibilità di creare legami tra utenti basati su interessi condivisi (stesse tipologie di file, stesse abitudini) e un sistema di valutazione reciproca collettiva (informazioni SNR, individuazione di malicious users, Quality of Experience).
Questi incentivi richiamano ciò che la letteratura sull’azione collettiva definisce meccanismi regolativi (ibidem, p. 93): l’esclusione, la reputazione, la reciprocità (Becker, Clement 2006, cit. in ibidem, p. 103; R. Alexander The biology of moral systems, cit. in Benkler The penguin and the leviathan, Crown Business, New York 2011, p. 42).
Dunque sembra che ULOOP gestisca le motivazioni alla cooperazione su due livelli. Un livello sistemico che crea fiducia nel funzionamento del sistema facendo leva sulle motivazioni strumentali alla cooperazione (Portes Alejandro, SOCIAL CAPITAL: Its Origins and Applications in Modern Sociology Annu. Rev. Sociol. 1998, pp.1-24). Si basano sulla enforceable trust, cioè il senso di appartenenza ad una comunità la cui esistenza è percepita come garanzia che il contributo dato verrà ripagato. Un livello interpersonale, che fa leva sulle motivazioni consumatorie alla cooperazione basate sulla bounded solidarity, per cui un individuo agisce per il bene collettivo anche se ad un costo personale, perché si sente parte del gruppo e si identifica in esso.
Sembra che anche Benkler lavori su questi due livelli, anche se non esplicitamente. Egli individua degli elementi chiave da implementare in un sistema perché sia cooperativo.

  1. Comunicazione: nella costruzione di un sistema cooperativo è fondamentale implementare la possibilità di comunicare tra gli utenti e, in maniera altrettanto importante, stimolare un processo di negoziazione e mediazione tra i punti di vista differenti. La comunicazione fa sviluppare empatia e fiducia negli altri, aiutando nella risoluzione di problemi.
  2. Empatia e Solidarietà: immedesimarsi in qualcun altro, provare le stesse emozioni e talvolta le stesse sensazioni (empatia) così come identificarsi in un gruppo (solidarietà), rende gli utenti disposti a sopportare un costo personale per il benessere del gruppo a cui sentono di appartenere. Per stimolare questo processo è importante umanizzare le persone, permettere di sapere chi sono e perché necessitano dell’aiuto o contributo di altri.
  3. Framing: creare un frame, un contesto che descriva il sistema come cooperativo, come una comunità, orientando l’interpretazione del sistema da parte degli utenti rendendoli maggiormente disposti alla cooperazione. Il frame, però, funziona solo se costruito sulla verità. Il sistema deve veramente essere progettato come cooperativo, altrimenti, non rispondendo alle aspettative degli utenti, si svuoterebbe dopo poco tempo.
  4. Reputazione, trasparenza e reciprocità: i sistemi che si basano sulla reciprocità, soprattutto quella indiretta, sono facilmente invasi da utenti che attingono al sistema senza contribuire, basta pensare al fenomeno dei free riders (Benkler 2011). La reputazione è lo strumento più importante che si ha per sostenere il sistema ma per essere veramente efficace necessita che l’identità delle persone coinvolte sia visibile e trasparente, sempre nei limiti della privacy.
  5. Equità, moralità, norme sociali: se percepiamo il sistema in cui siamo inseriti come  equo, siamo più predisposti a cooperare. Basarsi solo su incentivi e punizioni può essere controproducente, è necessario pensare se e come il nostro sistema risulti equo. Moralità: definire chiaramente i valori, discutendone, spiegandoli, evidenziando qual è la cosa che si ritiene giusta da fare in ogni situazione. Social Norms: Le norme sociali sono un codice che orientano il comportamento ma non sono stabilite a priori, sono emergenti, per questo generalmente la maggior parte delle persone tende a seguirle. Rendere trasparente il comportamento degli altri nelle diverse situazioni permetterà di conformarsi con ciò che è ritenuto “normale”.
  6. Modularità: cooperare ha un costo, è come l’impegno in una attività, una spesa economica per l’accesso a un servizio, la rinuncia ad una risorsa a favore di qualcun altro. Dunque uno dei primi elementi da attivare per incentivare la cooperazione è consentire la partecipazione per piccoli moduli di contribuito, permettendo a ciascuno di cooperare secondo le possibilità e disponibilità del momento.
  7. Premi e punizioni: siano essi materiali (ottenimento di vantaggi per il singolo), oppure sociali (raggiungimento di un benessere comune) ma sempre dati in base alle motivazioni degli utenti. Dare premi materiali a qualcuno che coopera alla comunità perché interessato al bene comune o, viceversa, premiare con la reputazione qualcuno interessato ad un aumento di risorse materiali, potrebbe causarne l’allontanamento spontaneo dalla comunità.
  8. Flessibilità: è necessario tenere presente i diversi profili motivazionali, anche quelli poco produttivi, perciò i sistemi che si avvalgono della cooperazione devono essere flessibili e consentire una contribuzione asimmetrica, sfruttando il principio della coda lunga.

Anche gli elementi suggeriti da Benkler si possono raggruppare e implementare nei due livelli di motivazione alla cooperazione: sistemico e interpersonale.
Comunicazione, empatia, solidarietà, reputazione, trasparenza, reciprocità e framing possono essere utili strumenti per costruire, a un livello interpersonale, la fiducia reciproca tra gli utenti, contribuendo a realizzare l’identificazione nel gruppo e a rafforzare la bounded solidarity.
Equità, moralità, norme sociali, modularità, premi, punizioni e flessibilità possono essere utili strumenti, a livello sistemico, per costruire la fiducia sistemica, contribuendo a rafforzare il senso di appartenenza alla comunità e la enforceable trust.

Verso una definizione di sostenibilità sociale di una tecnologia

Verso una definizione operativa di sostenibilità sociale

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

What’s next #11: Prima e seconda generazione dei siti di social network in Italia

I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.


Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.
La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.
Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.
Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.
A seguire il Venezuela.
Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?
Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.
Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.
Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).
Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).
Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.
A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.
La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.
La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).
Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.
In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.
La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.
Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.
Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.
Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.
Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.
Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.