Verso una definizione di sostenibilità sociale di una tecnologia

Verso una definizione operativa di sostenibilità sociale

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

Secondo articolo della serie dedicata al progetto ULOOP curato da Erica Giambitto.
Dopo la panoramica sul progetto ULOOP pubblicata qualche settimana fa, cerchiamo ora di definire meglio il campo di ricerca  e di arricchirlo. Ci eravamo posti la domanda di ricerca “ULOOP è una tecnologia socialmente sostenibile?”, abbiamo delineato alcuni aspetti della sostenibilità sociale, come ad esempio una gestione delle risorse che mantenga l’equilibrio del sistema, ed anche una idea di sostenibilità sociale intesa come risorsa, come capitale sociale, che emerge da una rete collaborativa di relazioni. Questi, però, sono  solo alcuni aspetti della sostenibilità sociale che rimane un concetto che difficilmente può essere racchiuso in una definizione univoca e che può invece essere pensato come un concetto sfaccettato, come suggerito da Stephen McKenzie nel suo articolo Social Sustainability: Towards some definitions” (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004). Per questo è stato osservato da un’ampia serie di punti di vista diversi.
Come possono esserci utili questi approcci nella nostra ricerca sulla sostenibilità sociale di ULOOP?
Innanzitutto nel delineare in modo sempre più preciso questo duplice aspetto della sostenibilità sociale che la vede, da un lato, come gestione, azione e quindi un processo in atto in una comunità e, dall’altro lato la vede come risorsa, come capitale sociale emergente dalle relazioni che legano la comunità. È importante, però, tenere a mente che quando parliamo di sistema e di relazioni in ULOOP stiamo parlando di diversi tipi di soggetti che entrano in relazione. Come indicato nel white paper 03 gli attori in gioco sono molteplici (ULOOP users, End-Users, Users, Subscribers, Consumers, Service Providers, Operators) e  quindi la sostenibilità sociale dovrebbe essere legata alla relazione fra questi soggetti.
Come vedremo, di per sé la sostenibilità sociale è un concetto complesso dunque cercheremo dapprima di comprenderlo meglio e in seguito di cercare dei legami con ULOOP.
Verso uno studio della sostenibilità sociale

<<When discussing social sustainability, ‘What is…’ or ‘What do we mean by…’ are immediate and automatic responses>> (McKenzie, 2004)

Il problema di definizione della sostenibilità sociale nasce dall’origine stessa del concetto. Frutto di un lungo processo scaturito dai primi interrogativi sull’impatto ambientale di un’industrializzazione del mondo sempre più spinta, può essere considerata una conseguenza degli interrogativi sulla sostenibilità economica e sulla sostenibilità ambientale in un’ottica di sviluppo sostenibile. La ricerca sulla sostenibilità sociale è ancora molto legata ad aspetti economici ed ambientali, e non deve esserne svincolata, ma per poterla comprendere e analizzare veramente e per poterla valorizzare adeguatamente è necessario, secondo McKenzie focalizzarsi su di essa attraverso un approccio specifico realizzato dalle scienze sociali.
Negli anni Sessanta sorgevano i primi problemi di sostenibilità ambientale delle imprese e delle economie e, per questo, iniziava a sentirsi la necessità di elaborare delle politiche di sviluppo che permettessero una crescita economica non deleteria per l’ambiente e che migliorasse le qualità della vita delle persone. Nacque per questo l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD).
Negli anni Ottanta si fece un notevole passo avanti nell’agenda della sostenibilità. La Commissione delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente (fondata nel 1983 dalle Nazioni Unite) inizia il suo lavoro per una nuova era di crescita economica basata su politiche che sostengono e proteggono le risorse ambientali. Viene riconosciuto da un lato l’aggravarsi dei problemi ambientali e, dall’altro, che questi problemi ambientali potevano essere dovuti anche a fattori sociali: degrado, povertà, pressione demografica e diseguaglianza sociale sono alcuni dei fattori sociali individuati come maggiore causa di degrado ambientale.
Si comincia a parlare di sviluppo sostenibile come mantenimento di <<processi ecologici essenziali e sistemi di supporto alla vita>> . (IUCN/UNEP/WWF, World conservation strategy: living resource conservation for sustainable development, IUCN/UNEP/WWF, Gland, Switzerland, 1980. Citato in McKenzie 2004, p. 4).
Da qui il passo successivo è rappresentato dal rapporto Brundtland, il quale definisce lo sviluppo sostenibile come

<<uno sviluppo che incontra i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni>> (WCED, Brundtland G.H , Mansour  K.,  1987 common future,  Oxford University Press, Oxford, GB; Citato in Canu 2011).

Il fattore sociale viene di fatto inserito nell’agenda della sostenibilità, ma nonostante questo le critiche mosse a questo approccio mostrano alcune perplessità.
McKenzie fa notare che il fattore sociale, sebbene incluso nell’agenda di ricerca è ancora “subordinato” all’idea dello sviluppo economico di tipo “colonialista”, le stesse perplessità che sollevava Latouche e che abbiamo considerato nel nostro precedente articolo.
L’idea secondo cui portando sviluppo economico nelle aree con basso capitale sociale e cioè con scarsa coesione sociale e povertà, si può invertire la tendenza riducendo così l’impatto ambientale, è fortemente criticata poiché rispecchia, secondo Joshi, un’ottica colonialista e non un vero interesse per l’ambiente e per una società più equa (M M Joshi, Sustainable consumption: issues of a paradigm shift, Indian Council of Social Science Research, Occasional Monograph Series, No 1, New Delhi, 2002, p 7; Citato in McKenzie 2004, p. 4). Un’altra critica è stata mossa alla “vaghezza” della definizione: spesso questa si trasforma in una cortina di fumo dietro la quale si nascondono le imprese per non realizzare realmente uno sviluppo più equo. (Michael Jacobs, ‘Sustainable development: a contested concept’ in A Dobson, ed, Fairness and futurity: essays on environmental sustainability and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1999, p 24; Citato in McKenzie 2004).
Il problema più importante ai fini della nostra ricerca continua ad essere il fatto che i principali “soggetti” considerati rimangono l’ambiente e lo sviluppo economico. Il tentativo di creare un equilibrio tra questi due fattori, considerati come contrapposti, non ha permesso di considerare il fattore sociale come altrettanto importante.
Negli anni Novanta le Università Australiane e la ricerca Australiana, si sono mosse per realizzare un approccio sempre più interdisciplinare alla sostenibilità. Dove per interdisciplinare si intende una sinergia tra dipartimenti di ricerca, dedicati ognuno ad un aspetto delle scienze sociali. Tra queste il Group of Eight cioè la rete delle otto università più antiche e prestigiose dell’Australia, la University of Queensland Faculty of Social and Behavioural Sciences; la Australian Academy of, the Humanities; l’Academy of the Social Sciences; la University of New South Wales Social Policy Research Centre e la University of New England Institute for Rural Futures.
Da qui, la University of South Australia ha lavorato sulla definizione di sostenibilità:

<<Sustainability—including sustainable environments, sustainable societies and sustainable economies. This priority would mean attention inter alia to issues relating to water use, renewable energy, democratic citizenship, social justice, equity, impact of globalised economies on work and triple bottom line approaches.>> (intervento della University of South Australia durante il processo consultativo sulle priorità di ricerca nazionali Australiane, citato da McKenzie 2004 )

Successivamente ha dato vita all’Hawke Research Institute proprio per dedicarsi in modo specifico ai fattori sociali che incidono sulla sostenibilità. Nonostante questi sforzi, l’impronta di ricerca a livello nazionale era ancora molto legata alle scienze economiche e tecniche, per questo la National Academy of the Humanities ha cercato di specificare riorganizzare gli obiettivi di ricerca:

<< We believe that the existing priority goals need to be re-drafted to acknowledge the fundamental human origins of environmental problems>> (National Academy of the Humanities,The humanities and Australia’s National Research Priorities p.13, citato in McKenzie 2004)

La sostenibilità ambientale è, secondo questa idea, anche una questione sociale, dal momento che i problemi ambientali hanno origine dal comportamento dell’uomo. Questo ha permesso finalmente di riconoscere il ruolo centrale degli elementi sociali e culturali nella questione della sostenibilità. La ricerca delle scienze sociali si sta affermando come campo autonomo di analisi, anche se al momento ancora risente di questa consapevolezza giunta in un secondo momento. Le scienze sociali sono ancora considerate come qualcosa da integrare in un processo già cominciato, come supporto ad un processo di analisi già iniziato.
Per McKenzie, dunque è sì necessaria una ricerca interdisciplinare sul concetto di sostenibilità ma, prima di tutto, è necessario che le scienze sociali si interroghino in maniera autonoma e indipendente sul concetto di sostenibilità sociale. Una volta definita la sostenibilità sociale come un campo indipendente di studi, una volta elaborati dei modelli di analisi, allora la ricerca sociale, quella ambientale ed economica potranno lavorare in sinergia per lo sviluppo di una sostenibilità che vede i fattori ambientali, sociali ed economici come equivalenti.
Verso una definizione di sostenibilità sociale
Nel suo testo McKenzie fornisce una definizione operativa di sostenibilità sociale:

<<Social sustainability is: a life-enhancing condition within communities, and a process within communities that can achieve that condition.>> (S. McKenzie, Social sustainability: Towards some definitions, Hawke Research Institute Working Paper Series n.27, Hawke Research Insitute, University of South Australia, Magill 2004, p. 12.)

La sostenibilità sociale è dunque vista come una condizione descritta da alcune caratteristiche che, quando presenti, sono considerate come indicatori della condizione stessa. Gli ultimi tre elementi sono invece dei meccanismi, essi descrivono delle azioni che rendono possibile il processo di sostenibilità sociale:

  • Equità d’accesso ai servizi chiave (incluse salute, educazione, trasporti, casa e svaghi);
  • Equità tra le generazioni (le future generazioni non saranno svantaggiate dalle attività della generazione attuale);
  • Un sistema di relazioni culturali in cui gli aspetti positivi di culture diverse sono valorizzati e protetti, e in cui l’integrazione culturale è supportata e promossa quando è desiderata da individui e gruppi;
  • La diffusa partecipazione politica dei cittadini non solo nelle procedure elettorali ma anche nelle altre aree dell’attività politica, particolarmente a livello locale;
  • Un sistema per trasmettere consapevolezza sulla sostenibilità sociale da una generazione alla successiva;
  • Un senso di responsabilità di comunità per mantenere quel sistema di trasmissione;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di identificare collettivamente le sue capacità e i suoi bisogni;
  • Meccanismi che permettono ad una comunità di soddisfare i suoi stessi bisogni dove possibile attraverso  un’azione di comunità;
  • Meccanismi di difesa politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.

Sostenibilità come condizione misurabile e come capitale sociale emergente
La sostenibilità è qui intesa come una condizione misurabile in base alla presenza o all’assenza di questi indicatori, al momento riduttivi e non esaustivi, attraverso cui è possibile, per McKenzie, sviluppare un’agenda di ricerca della sostenibilità sociale che faccia esclusivo riferimento all’aspetto sociale.
Un altro studio in questo senso è quello compiuto da Cocklin e Alston per la  Academy of the Social Sciences realizzata all’interno del progetto Australia’s Community Sustainability (Chris Cocklin and Margaret Alston, eds., Community sustainability in rural Australia: a question of capital, Centre for Rural Social Research, Wagga Wagga, NSW, 2003; Citato in McKenzie 2004). Lo scopo degli autori è quello di misurare e valutare le variazioni del capitale sociale in una comunità monitorando le variazioni all’interno dei cinque sottoinsiemi che lo compongono: capitale naturale (risorse naturali), umano (conoscenza e abilità dei singoli individui), sociale (reti produttive e valori condivisi), istituzionale (strutture istituzionali nel privato, nel pubblico e nel terzo settore) e di prodotto (costruzioni, beni prodotti, risorse monetarie). L’ipotesi di lavoro è che la sostenibilità sociale di una comunità sia misurabile rispetto alla presenza e al valore di questi “stock” di capitale in diversi settori.
Nel nostro primo articolo avevamo visto come ULOOP potesse configurarsi come una rete di relazioni da cui emerge capitale sociale e, quindi, tenendo come riferimento il modello di sviluppo fornito nel white paper 03 e non avendo ancora un caso reale su cui lavorare, potremmo utilizzare le caratteristiche distintive di ULOOP per ipotizzare delle sottocategorie: Capitale di Risorse (ampiezza di banda, potere computazionale, livello di energia, stampanti); Capitale di Informazioni (info turistiche, pubblicità, opinioni, localizzazioni); Capitale Potenziale (o di Disponibilità:  risorse computazionali, di connessione internet, di servizi, di informazioni); Capitale di Sicurezza (supporto alla mobilità, trasferimenti trasparenti); potremmo aggiungere una sottocategoria dedicata al Capitale Umano (conoscenze, abilità, disponibilità di diventare nodi) e una sottocategoria dedicata al Capitale di Struttura (fornita da operatori e da service provider).
L’ipotesi di Cocklin e Alston viene approfondita da Pepperdine (Sharon Pepperdine, Social Indicators of Rural Community Sustainability: An Example from the Woady Yaloak Catchment, 2000, Department of Geography & Environmental Studies, The University of Melbourne), che  in uno studio specifico sulla comunità di Woady Yaloak Catchmen (comunità di rinnovamento del territorio attraverso uno sviluppo sostenibile, portato avanti grazie a contributi “bottom up” della popolazione), cerca di sviluppare degli indicatori sociali che descrivano la sostenibilità sociale, anche grazie alla partecipazione degli appartenenti alla comunità. Attraverso interviste, sondaggi e questionari ha identificato degli importanti temi ritenuti rilevanti che ha successivamente raggruppato in 15 indicatori chiave della sostenibilità sociale.

  1. Coesione: coordinamento, abilità di lavorare insieme
  2. Senso di comunità: vita di comunità, partecipazione attiva
  3. Prosperità: ricambio della popolazione inclusi i giovani adulti, mentalità positiva, rivendita di proprietà
  4. Senso del vicinato: comunità amichevole e di supporto
  5. Accettazione: differenti punti di vista, di idee, di nuovi arrivati; conoscenza dei vicini
  6. Opportunità di partecipare alle attività sociali (intrattenimento, culturale, ricreazionale e sport) e affari pubblici; presenza di persone motivate ed entusiaste
  7. Opportunità d’impiego che includano giovani e adulti
  8. Scarsa integrazione sociale: separazioni di famiglie, droga e crimine, suicidio
  9. Attaccamento all’area
  10. Apertura mentale: apertura verso “estranei” e donne
  11. Vitalità economica: tempo per vacanze e svago, pensionamento, sicurezza finanziaria
  12. Input di comunità: gruppi di comunità, negozi locali, fiducia della comunità in se stessa
  13. Comunicazione: quotidiano locale
  14. Unità: volontariato, valori comuni
  15. Stabilità della popolazione

Questi indicatori forniscono, secondo Pepperdine uno strumento per ottenere una visione soggettiva, dall’interno di una comunità sulla sua sostenibilità misurando la realtà in cui vivono. Sono indicatori sociali soggettivi e possono essere usati a fianco degli indicatori “oggettivi”, come ad esempio i dati di censimento, per dare un’immagine più ampia delle tendenze nella sostenibilità e che la svincolano da indicatori legati principalmente allo sviluppo economico.
Un fatto importante da mettere in evidenza secondo Pepperdine è che gli indicatori ritenuti più rilevanti dalla popolazione riguardano la coesione sociale, il senso di appartenenza, il senso del vicinato e l’accettazione della diversità; indicatori molto diversi da quelli considerati tradizionalmente come “oggettivi” (prosperità economica, possibilità d’impiego e vitalità economica) e che, secondo la popolazione, consentono alla comunità di proseguire e di migliorare nel suo progetto di riqualificazione sostenibile del territorio.
Lo studio di Pepperdine fa riferimento ad una specifica comunità rurale e ci rendiamo conto dei limiti che questo comporta nella nostra ricerca.  È importante, infatti, esplicitare che gli indicatori così sviluppati sono specifici di quella comunità, sebbene siano abbastanza generali da poter essere utilizzati anche in altri luoghi. Credo, dunque, che sia necessario sviluppare degli indicatori specifici per il nostro progetto. Visto però lo stato dell’arte nella ricerca sulla sostenibilità sociale e la sua, ancora forte, subordinazione al concetto di sostenibilità ambientale in relazione ad un territorio, una così selettiva attenzione agli aspetti sociali messa in atto dalla comunità stessa ci sembra particolarmente interessante. È necessario anche considerare che qui si fa riferimento ad un territorio specifico e al suo sviluppo reso possibile dal senso di comunità interno e dalla vicinanza fisica.
Nel caso di ULOOP, invece, sebbene ci sia un legame con il luogo fisico (per citare alcuni esempi legati allo spazio: geolocalizzazione, estensione della copertura tra nodi vicini, advertising di prossimità, informazioni turistiche fornite dagli abitanti locali) potrebbe non svilupparsi quella percezione di territorio fisico da condividere e valorizzare con uno sforzo comune. Ma se consideriamo un altro tipo di territorio, un altro tipo di luogo che è quello prodotto dalla comunicazione (scambi comunicativi, di relazione e di dati), ULOOP potrebbe essere percepito come uno spazio, sì virtuale, ma da tenere “in vita” attraverso la partecipazione di ogni singolo individuo coinvolto.
Potremmo, seguendo questa direzione,  dire che questa partecipazione per essere efficace, e dunque garantire come effetto il funzionamento della rete ULOOP, dovrebbe possedere e rispecchiare gli indicatori di sostenibilità sociale sopra proposti. Potremmo, quindi, ricercare nei casi d’uso previsti dal progetto, quei temi identificati da Pepperdine:

  1. Coesione, Senso di comunità, Input di comunità, Unità – tourist community services, attack detection by cooperation, coordination of group activities, trust driven access control;
  2. Prosperità, Senso del vicinato, Accettazione, Apertura mentale verso “estranei” – extended broadband coverage, 3G offloading, liability support, load balancing and adaptation, Shared devices;
  3. Opportunità di partecipare alle attività sociali, Opportunità d’impiego, Vitalità economica – shared device, proximity advertising;
  4. Comunicazione – intra ULOOP communication

Come poco sopra accennato, un’altra strada da seguire in questo lavoro  potrebbe essere quella di elaborare, con un contributo di tipo bottom up, degli indicatori di sostenibilità sociale specifici di ULOOP. Non avendo ancora un prototipo su cui lavorare, però, potremmo seguire questa strada su una comunità che rispecchi in qualche modo il modello di funzionamento di ULOOP.
Sostenibilità come Processo 
Tornando alla definizione di sostenibilità sociale data da McKenzie, egli ne parla sì come una condizione di miglioramento della vita in una comunità, descrivibile attraverso delle caratteristiche, ma anche come un processo interno alla comunità che serve a raggiungere quella condizione di equilibrio e realizzato attraverso dei meccanismi.
Meccanismi che contribuiscono nell’identificazione collettiva dei punti di forza della comunità e dei suoi bisogni; meccanismi interni di soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso azioni collettive e meccanismi di azione politica per soddisfare le esigenze che non possono essere soddisfatte con l’azione della comunità.
Anche ULOOP prevede dei meccanismi, chiamati meccanismi di incentivo alla cooperazione, necessari per motivare le persone in modo che prendano parte a ULOOP, e dunque per far raggiungere una condizione di sostenibilità che ne permetta il funzionamento. I meccanismi di incentivo possono essere di vario tipo, in particolare: benefici che vengono dall’utilizzo di ULOOP per ogni soggetto, il coinvolgimento nella creazione di valore per sé e per gli altri, lo scambio di ruoli che permette un’equa distribuzione di vantaggi e svantaggi il meccanismo di creazione della reputazione, e aspetti più tecnici come la monetizzazione del valore prodotto. Seguendo il ragionamento di McKenzie, se la sostenibilità sociale considerata come risorsa o come quantità misurabile è descritta e definita da una serie di indicatori, per osservarla come processo dobbiamo, invece, rivolgere la nostra attenzione a quelle azioni prodotte dalla comunità stessa che danno forma e sviluppo al processo.
Trovo utile, dunque, approfondire la riflessione sugli stessi interrogativi di ricerca che si pone McKenzie a questo punto della sua analisi e cioè:

  • What are the main mechanisms by which the community collectively identifies its own needs?
  • How have these mechanisms developed?
  • Is the community satisfied with these mechanisms, and what are some ways in which they think these might be improved?
  • Does this community’s means to identify its needs provide a suitable model for consideration by other communities?
Ancora, dunque, non abbiamo risposte ma il nostro sguardo per osservare ULOOP si è allargato, oltre che approfondito.
È un processo che si sviluppa di volta in volta, perciò per gli step successivi, stay tuned! 😉

Urbino su Facebook

o come Facebook rende visibili le relazioni in una comunità

Visto l’interesse destato dall’analisi del gruppo Facebook dell’Università di Urbino ho deciso di estendere questa visualizzazione per includere più gruppi. L’idea è quella di rappresentare le relazioni di amicizia dei più rappresentativi gruppi Facebook di Urbino.
In una prima fase ho dunque dovuto cercare e selezionare i gruppi da prendere in considerazione.
Sono dunque partito da una semplice ricerca con la chiave urbino nel motore interno di Facebook limitando i risultati ai soli gruppi. Degli oltre 364 gruppi restituiti, ho deciso di escludere tutti quelli che, dal titolo, sembravano chiaramente riferirsi a realtà più grandi (ad esempio tutti quelli Pesaro e Urbino). Ho inoltre deciso di prendere in considerazione solo i gruppi con oltre 50 membri. Di questi alcuni erano aperti ed altri chiusi. Per quelli aperti mi sono semplicemente unito al gruppo, per quelli chiusi ho richiesto l’autorizzazione a diventare membro (solo in un caso mi è stato chiesto il perché ed ho spiegato che stavo conducendo una ricerca). Ho avuto così accesso ai dati di 72 gruppi. Per ciascuno di essi ho scaricato il grafo delle relazioni intergruppo (usando netvizz) e aggregato i risultati in un unico file .gdf copiando in questo file la lista dei membri del gruppo e quella delle loro relazioni. Questa procedura ha causato ovviamente la duplicazione di molti nodi con il rispettivo numero identificativo. Questa duplicazione non ha tuttavia causato problemi all’atto dell’importazione in Gephi durante la quale i nodi duplicati sono stati automaticamente eliminati.
Il grafo risultato dall’aggregazione di tutte le relazioni fra i membri dei gruppi presi in considerazione consiste alla fine di 14014 nodi e 175188 archi.
Su questo grafo ho calcolato i soliti indici di centralità (eigenvector, betweenness, closeness ed eccentricity) e la modularity per individuare le comunità.
Ho inoltre posizionato i nodi utilizzando l’algortimo ForceAtlas 2 (con il paramento Gravity a 100 per evitare una eccessiva disgregazione).
L’analisi della modularità, definita come una misura di quanto bene una rete possa essere scomposta in comunità modulari, si attesta intorno allo 0,6 ed il numero di comunità identificato oscilla (si tratta di algoritmo randomizzato che genera risultati diversi ogni volta che viene eseguito) intorno alle 1000.

Da questo migliaio di comunità ne emergono tre che da sole raccolgono quasi il 50% dei nodi.
Si tratta di quelle che ho identificato come UNIURB (15,5% e colore Verde), URBINATI (15,02% Blu) e MOVIDA (13,15% Rosso). Significativa inoltre la dimensione del gruppo del COLLEGI (7,34% Giallo), GIURISPRUDENZA (5,41% Azzurro), ANNUNCI E RICHIESTE (5,35% Grigio), LICEO CLASSICO RAFFAELLO (5,26% Fucsia). Fra le altre comunità che ho identificato figurano inoltre quella dell’ISIA, dell’Istituto d’Arte, dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo e quella degli studenti Greci.

Nelle immagini che seguono due visualizzazioni dei 250 utenti meglio connessi secondo, rispettivamente, la metrica della betweenness centrality e dell’eigenvector centrality.


Infine, visto che zoom.it si rifiuta di creare l’immagine zoommabile, potete scaricare le visualizzazioni totali in formto pdf con la dimensione dei nodi legate alla betweenness e all’eigenvector centrality (i nomi, in queste visualizzazioni complessive, sono stati volutamente rimossi per questioni di privacy).Visto l’interesse destato dall’analisi del gruppo Facebook dell’Università di Urbino ho deciso di estendere questa visualizzazione per includere più gruppi. L’idea è quella di rappresentare le relazioni di amicizia dei più rappresentativi gruppi Facebook di Urbino.
In una prima fase ho dunque dovuto cercare e selezionare i gruppi da prendere in considerazione.
Sono dunque partito da una semplice ricerca con la chiave urbino nel motore interno di Facebook limitando i risultati ai soli gruppi. Degli oltre 364 gruppi restituiti, ho deciso di escludere tutti quelli che, dal titolo, sembravano chiaramente riferirsi a realtà più grandi (ad esempio tutti quelli Pesaro e Urbino). Ho inoltre deciso di prendere in considerazione solo i gruppi con oltre 50 membri. Di questi alcuni erano aperti ed altri chiusi. Per quelli aperti mi sono semplicemente unito al gruppo, per quelli chiusi ho richiesto l’autorizzazione a diventare membro (solo in un caso mi è stato chiesto il perché ed ho spiegato che stavo conducendo una ricerca). Ho avuto così accesso ai dati di 72 gruppi. Per ciascuno di essi ho scaricato il grafo delle relazioni intergruppo (usando netvizz) e aggregato i risultati in un unico file .gdf copiando in questo file la lista dei membri del gruppo e quella delle loro relazioni. Questa procedura ha causato ovviamente la duplicazione di molti nodi con il rispettivo numero identificativo. Questa duplicazione non ha tuttavia causato problemi all’atto dell’importazione in Gephi durante la quale i nodi duplicati sono stati automaticamente eliminati.
Il grafo risultato dall’aggregazione di tutte le relazioni fra i membri dei gruppi presi in considerazione consiste alla fine di 14014 nodi e 175188 archi.
Su questo grafo ho calcolato i soliti indici di centralità (eigenvector, betweenness, closeness ed eccentricity) e la modularity per individuare le comunità.
Ho inoltre posizionato i nodi utilizzando l’algortimo ForceAtlas 2 (con il paramento Gravity a 100 per evitare una eccessiva disgregazione).
L’analisi della modularità, definita come una misura di quanto bene una rete possa essere scomposta in comunità modulari, si attesta intorno allo 0,6 ed il numero di comunità identificato oscilla (si tratta di algoritmo randomizzato che genera risultati diversi ogni volta che viene eseguito) intorno alle 1000.
Da questo migliaio di comunità ne emergono tre che da sole raccolgono quasi il 50% dei nodi.
Si tratta di quelle che ho identificato come UNIURB (15,5% e colore Verde), URBINATI (15,02% Blu) e MOVIDA (13,15% Rosso). Significativa inoltre la dimensione del gruppo del COLLEGI (7,34% Giallo), GIURISPRUDENZA (5,41% Azzurro), ANNUNCI E RICHIESTE (5,35% Grigio), LICEO CLASSICO RAFFAELLO (5,26% Fucsia). Fra le altre comunità che ho identificato figurano inoltre quella dell’ISIA, dell’Istituto d’Arte, dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo e quella degli studenti Greci.
Nelle immagini che seguono due visualizzazioni dei 250 utenti meglio connessi secondo, rispettivamente, la metrica della betweenness centrality e dell’eigenvector centrality.


Infine, visto che zoom.it si rifiuta di creare l’immagine zoommabile, potete scaricare le visualizzazioni total in pdf con la dimensione dei nodi legate alla betweenness e all’eigenvector centrality (i nomi, in queste visualizzazioni complessive, sono stati volutamente rimossi per questioni di privacy).Visto l’interesse destato dall’analisi del gruppo Facebook dell’Università di Urbino ho deciso di estendere questa visualizzazione per includere più gruppi. L’idea è quella di rappresentare le relazioni di amicizia dei più rappresentativi gruppi Facebook di Urbino.
In una prima fase ho dunque dovuto cercare e selezionare i gruppi da prendere in considerazione.
Sono dunque partito da una semplice ricerca con la chiave urbino nel motore interno di Facebook limitando i risultati ai soli gruppi. Degli oltre 364 gruppi restituiti, ho deciso di escludere tutti quelli che, dal titolo, sembravano chiaramente riferirsi a realtà più grandi (ad esempio tutti quelli Pesaro e Urbino). Ho inoltre deciso di prendere in considerazione solo i gruppi con oltre 50 membri. Di questi alcuni erano aperti ed altri chiusi. Per quelli aperti mi sono semplicemente unito al gruppo, per quelli chiusi ho richiesto l’autorizzazione a diventare membro (solo in un caso mi è stato chiesto il perché ed ho spiegato che stavo conducendo una ricerca). Ho avuto così accesso ai dati di 72 gruppi. Per ciascuno di essi ho scaricato il grafo delle relazioni intergruppo (usando netvizz) e aggregato i risultati in un unico file .gdf copiando in questo file la lista dei membri del gruppo e quella delle loro relazioni. Questa procedura ha causato ovviamente la duplicazione di molti nodi con il rispettivo numero identificativo. Questa duplicazione non ha tuttavia causato problemi all’atto dell’importazione in Gephi durante la quale i nodi duplicati sono stati automaticamente eliminati.
Il grafo risultato dall’aggregazione di tutte le relazioni fra i membri dei gruppi presi in considerazione consiste alla fine di 14014 nodi e 175188 archi.
Su questo grafo ho calcolato i soliti indici di centralità (eigenvector, betweenness, closeness ed eccentricity) e la modularity per individuare le comunità.
Ho inoltre posizionato i nodi utilizzando l’algortimo ForceAtlas 2 (con il paramento Gravity a 100 per evitare una eccessiva disgregazione).
L’analisi della modularità, definita come una misura di quanto bene una rete possa essere scomposta in comunità modulari, si attesta intorno allo 0,6 ed il numero di comunità identificato oscilla (si tratta di algoritmo randomizzato che genera risultati diversi ogni volta che viene eseguito) intorno alle 1000.
Da questo migliaio di comunità ne emergono tre che da sole raccolgono quasi il 50% dei nodi.
Si tratta di quelle che ho identificato come UNIURB (15,5% e colore Verde), URBINATI (15,02% Blu) e MOVIDA (13,15% Rosso). Significativa inoltre la dimensione del gruppo del COLLEGI (7,34% Giallo), GIURISPRUDENZA (5,41% Azzurro), ANNUNCI E RICHIESTE (5,35% Grigio), LICEO CLASSICO RAFFAELLO (5,26% Fucsia). Fra le altre comunità che ho identificato figurano inoltre quella dell’ISIA, dell’Istituto d’Arte, dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo e quella degli studenti Greci.
Nelle immagini che seguono due visualizzazioni dei 250 utenti meglio connessi secondo, rispettivamente, la metrica della betweenness centrality e dell’eigenvector centrality.


Infine, visto che zoom.it si rifiuta di creare l’immagine zoommabile, potete scaricare le visualizzazioni total in pdf con la dimensione dei nodi legate alla betweenness e all’eigenvector centrality (i nomi, in queste visualizzazioni complessive, sono stati volutamente rimossi per questioni di privacy).

Visualizzare le relazioni di amicizia dei membri di un gruppo Facebook

Analisi del gruppo Facebook dell’Università di Urbino

Ho scoperto solo oggi che netvizz consente di scaricare, oltre che il proprio grafo personale di Facebook, anche quello dei gruppi di cui si è membri.
Per testare questa funzionalità ho provato a scaricare il grafo relativo al gruppo Università di Urbino “Carlo Bo” composto, al momento in cui scrivo, da 2281 membri.
Nella documentazione è riportato che, a cause delle limitazioni imposte da Facebook sull’uso delle sue API, per gruppi superiori a 500 membri viene estratto un campione casuale di membri. Nella mia prova sono invece riuscito a scaricare, dopo alcuni minuti di attesa durante i quali sembra che non succeda nulla, un grafo praticamente completo composto da 2213 nodi e 13408 archi che rappresentano i legami di amicizia fra i membri del gruppo. Sul perché manchino all’appello 68 membri non saprei dirvi anche se sospetto possa dipendere dalle impostazioni di privacy degli utenti.
Netvizz crea un grafo indiretto in formato gdf. Da lì ad importare il grafo in Gephi il passo è stato breve.
Fra le misure di centralità ho deciso di utilizzare l’Eigenvector centrality per rappresentare le dimensioni dei nodi. Ho inoltre calcolato la modularity per individuare le comunità.
Ho infine applicato l’algoritmo ForceAtlas 2 per posizionare i nodi.
Ed ecco il risultato.

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Credo si tratti di una fotografia piuttosto fedele delle relazioni a Urbino (almeno per quello che le conosco io). Si nota l’emergere di alcuni cluster interessanti come quello degli studenti greci in blu (sulla destra e piuttosto isolati), l’area di scienze della comunicazione (in rosso), quella dell’impegno politico in bianco e piuttosto centrali a segnalare una tendenza a fare amicizia con molte persone diverse, caratteristica questa che condividono con il cluster verde che fa invece riferimento alla vita notturna e all’intrattenimento. Lascio a voi il piacere di identificare gli altri cluster.
Vi lascio inoltre con una piccola curiosità.
Questo è il grafo dei 100 membri del gruppo meglio connessi (sempre in base all’Eigenvector centrality) rispetto agli altri.

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Ci siete? E in che cluster?