«È una rivolta?» «No, Sire, è una rivoluzione»

Le recenti proteste esplose in Tunisia ed Egitto riportano d’attualità il ruolo svolto da Internet come mezzo di organizzazione e informazione

Gli studi condotti nell’ambito del Pew Research Center’s Internet & American Life Project sono comunemente considerati il punto di riferimento per comprendere l’impatto di internet su svariati aspetti della vita dei cittadini americani.
Di recente, con un notevole tempismo sull’attualità dei fatti che avvengono in Tunisia, Albania, Yemen ed Egitto, Pew ha pubblicato il report relativo ad uno studio dedicato a comprendere come la rete abbia cambiato gruppi e organizzazioni di volontariato influenzandone la capacità di agire con efficacia sulla vita delle comunità nella quali operano. Il report conferma il rapporto fra uso di internet ed appartenenza a gruppi ed organizzazioni di volontariato. Mentre fra i non internet users la quota di cittadini attivi si attesta al 56%, fra gli utenti Internet questa percentuale sale all’80% raggiungendo l’82% fra gli utenti di siti di social network e l’85% fra gli utenti di Twitter. Inoltre l’apporto di Internet alla vita di questi gruppi è largamente riconosciuto tanto dagli americani connessi alla rete (il 75% ritiene che internet abbia avuto un impatto significativo) quanto dalla media nazionale che comprende anche i cittadini offline (68%).
A partire da questi dati credo valga la pena porsi la stessa domanda in relazione alle proteste cui stiamo assistendo in questi giorni. Qual’è, se c’è, l’apporto di internet a queste forme di azione collettiva? La rivoluzione in Tunisia avrebbe lo stesso raggiunto i suoi scopi se non ci fossero stati internet ed i social network? Che ruolo giocherà in Egitto?
Forse una prima risposta, come fa notare Ethan Zuckerman in questo interessante articolo, sta proprio nei tentativi di censura operati dai governi di questi Paesi.  È di oggi la notizia che le autorità egiziane hanno bloccato l’intera rete internet nazionale e molte delle reti cellulari. Sappiamo di più su questo in relazione alla Tunisia, una delle nazioni africane con il più alto tasso di accesso alla rete, dove i tentativi di censura sono noti da mesi e documentati ampiamente (si veda ad esempio questo pezzo pubblicato su ReadWriteWeb). Questi tentativi, talvolta estremamente raffinati come nel caso del sistema messo in piedi per rubare le chiavi di accesso a Facebook, GMail e Live.com, mostrano quanto le autorità di questi Paesi riconoscano un ruolo a internet. Nello specifico questo ruolo appare duplice: da una parte si tratta di un mezzo di coordinamento delle forme di protesta (in sinergia con i telefoni cellulari), dall’altro di informazione nei confronti dell’opinione pubblica e mondo del giornalismo che si trova oltre confine.
La maggior parte dei commentatori sembrano concordare sull’efficacia di internet circa quest’ultimo aspetto – anche se nel caso della Tunisia i tempi di rimbalzo sui media stranieri non sono stati affatto brevi – mentre maggiori perplessità, forse anche dovute alla carenza di dati, solleva il ruolo svolto da internet come strumento per il coordinamento di queste azioni di protesta collettive.
Se appare dunque impossibile dimostrare un rapporto di causa/effetto fra internet e proteste su larga scala, è tuttavia altrettanto difficile negare che – da alcuni anni a questa parte – non c’è tentativo di rivoluzione che non sia stato accompagnato da un significativo tasso di conversazione sulla rete e nello specifico su siti di social network come Facebook e Twitter.
Servirà tempo e ricerca per rispondere adeguatamente a queste domande.
Tempo e ricerca che servirebbero anche a comprendere meglio quanto sta avvenendo e potrebbe avvenire, a questo proposito, in Italia. In questo senso alcuni elementi interessanti sono forniti da questa indagine realizzata da Demos & Pi. Ulteriori spunti di riflessione a riguardo emergeranno dai risultati di uno studio che abbiamo condotto sul consumo di news nel nostro Paese e che sarà presentato nel corso di una conferenza stampa il 10 Febbraio a Roma.
Credits: Foto bCollin David Anderson