Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

What's next #2: Non credere a nessuno che abbia più di venticinque anni

L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.L’età delle persone a cui non bisogna credere si è abbassata dai 30 degli anni ’70 ai 25 ma lo spirito non è cambiato. Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother (l’ultimo romanzo di Cory Doctorow) lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.
Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.
Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.
Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.
I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.
Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.
La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.
E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.
Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.
Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.
Somministri il test ad un milione di persone.
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.
Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.
Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000
Una persona su un milione ha il SuperAIDS.
Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.
Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.
Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.
Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.
E questo solo per parlare dell’inefficacia.
La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.
Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.
E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).
Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.
Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).
Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.
Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.
Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.
La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.
Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).
Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.
Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.
Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.
L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.
Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.
Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.

Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).

Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.

Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.

L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.

Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.

Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.

ll grembiule ed il voto in condotta sono solo l’inizio.

Basta sentire i discorsi degli adulti (o guardare i telegiornali in TV) per capire che lo scenario raccontato da Cory Doctorow in Little Brother è molto meno fantascientifico di quanto si possa credere.

Uno scenario cui fa da sfondo una scuola che in nome della sicurezza degli alunni si affida alle tecnologie del controllo cibernetico diffuso (telecamere, metal detector, etc) per ridurne di fatto la libertà e azzerare la privacy.

Libertà in cambio di sicurezza è la metafora guida dell’incubo globale post 11 settembre e Little Brother ha lo straordinario pregio di mettere in luce tutti i limiti ed i pericoli di questa semplice equazione.

I limiti sono insiti nella stessa natura del controllo cibernetico.

Quando un fenomeno assume dimensioni troppo consistenti da poter essere gestito con i metodi tradizionali ci si affida alla statistica per individuare i fenomeni devianti dallo standard. Si tratta della logica che è alla base, ad esempio, dei filtri anti-spam che svolgono per noi lo sporco lavoro di selezionare i messaggi spazzatura da quelli dei nostri amici, familiari e colleghi di lavoro.

La stessa logica può essere applicata anche al controllo sociale.

E’ possibile, ad esempio, tenere traccia dei percorsi di tutti gli utenti delle metropolitana di Roma per avere un profilo medio degli spostamenti dell’utente tipo. Qualcuno che, ad esempio, dal lunedì al sabato percorre sempre lo stesso tratto: dalla fermata vicino casa a quella dell’ufficio e viceversa. Una volta tracciato un profilo medio si possono evidenziare tutte le forme di devianza significativa rispetto a questa media alla ricerca di comportamenti sospetti (si pensi ad esempio esempio al percorso irregolare che fa uno spacciatore per le sue consegne quotidiane). Il comportamento sospetto fa poi scattare controlli più approfonditi che costano alla società tempo e denaro.

Il limite intrinseco del “controllo della mancanza di controllo” è ben descritto dal “paradosso del falso positivo” descritto nel libro e riportato nel box.

Supponiamo di avere una nuova malattia chiamata SuperAIDS.

Solo una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Hai sviluppato un test per il SuperAIDS che è accurato al 99%. Ovvero il 99% delle volte offre un risultato corretto positivo se il soggetto è infetto e falso se il soggetto è in salute.

Somministri il test ad un milione di persone.

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Una persona ogni cento a cui è stato somministrato il test genererà un “falso positivo” che dirà che questa persona ha il SuperAIDS anche se non lo ha.

Questo è ciò che significa “accurato al 99%”: 1% di errore.

Quanto fa un 1% di un milione? 1.000.000/100 = 10.000

Una persona su un milione ha il SuperAIDS.

Ma se testi un milione di persone scelte in modo casuale troverai probabilmente un solo caso vero di SuperAIDS.

Ma il test non identificherà una sola persona. Ne identificherà 10.000.

Ecco che il tuo test efficace nel 99% dei casi si rivelerà inaccurato il 99,99% delle volte. (Cory Doctorow/Little Brother, p. 52 – traduzione mia)

Su fenomeni sufficientemente rari il controllo cibernetico basato sull’inferenza bayesiana, per quanto accurato sia, può generare una necessità di controllo i cui costi economici e sociali superano facilmente il valore del beneficio che si intende ottenere.

Il “controllo della mancanza di controllo” genera la necessità di ulteriore controllo in una spirale potenzialmente infinita.

E questo solo per parlare dell’inefficacia.

La pericolosità è in qualche modo più semplice da comprendere.

Quando il controllo si basa sull’inclusione più che sulla reclusione, la comunicazione ne diventa il perno.

E’ il fenomeno per il quale possedere un telefono cellulare rende il mondo raggiungibile rendendoti raggiungibile dal mondo stesso. Una volta accettata l’inclusione non è possibile tornare indietro ed anche il non essere raggiungibile può diventare facilmente motivo di sospetto (“Perché lo hai spento?”).

Quando si dice comunicazione oggi si dice Internet e non sorprende dunque che le forme di controllo più raffinate abbiano luogo in rete. Google basa sul data mining delle attività dei suoi utenti il suo straordinario successo. Una volta ho letto da qualche parte che se Google fosse un ristorante analizzerebbe anche i resti rimasti nel piatto per comprendere meglio le esigenze dei propri clienti ed adattarvisi.

Google è il campione del controllo cibernetico. La loro mission è rendere accessibile tutta l’informazione del mondo ma quello che in realtà fanno è analizzare l’informazione su come il mondo accede all’informazione. Il gioco che fanno è tuttavia palese ed è interessante che alcuni di questi dati vengano restituiti al mondo stesso nella forma di servizi come il Google Zeitgesit, Google Trends o Google Insights for Search (per citare solo i casi più evidenti).

Ma il controllo diffuso può essere pericoloso anche per un secondo motivo.

Limitare la libertà per favorire il controllo è una strategia propria dei sistemi totalitari ed ogni sistema totalitario genera delle forme di resistenza il cui obiettivo è quello di sfuggire a questo controllo in nome della libertà.

Il romanzo di Cory Doctorow legge tutto questo in chiave generazionale suggerendo neanche troppo velatamente la nascita di un movimento di resistenza delle giovani generazioni native del digitale nei confronti degli adulti ossessionati dalla sicurezza. Una prospettiva drammatica ma al tempo stesso resa possibile dal fatto che quando il controllo è basato sulla comunicazione la competenza nell’uso del mezzo diventa cruciale.

La metafora stessa dei nativi digitali, come ha fatto notare Henry Jenkins, è in questo senso tutt’altro che neutra e meriterebbe forse un uso più cauto e ponderato di quanto non si faccia invece oggi.

Proprio per questo è interessante come il romanzo stemperi nel finale la contrapposizione generazionale (si legga la recensione di Henry Jenkins che ben racconta come e perchè).

Esiste un legame profondo ed inestricabile fra cybercultura e controcultura e Little Brother lo racconta in modo straordinario descrivendo la lotta impari fra un novello Davide, il 17enne Marcus (aka M1k3y) ed il Golia rappresentato dal Department of Home Security. Una lotta i cui esiti, grazie all’empowerment reso possibile dalla conoscenza delle tecnologie di rete e alle capacità delle reti stesse di supportare lo sviluppo di comunità orientate all’azione, diventa meno scontata di quanto si possa immaginare.

Per questo motivo Little Brother è un romanzo da leggere e far leggere sopratutto ai nativi digitali stessi.

Il romanzo è scaricabile gratuitamente ma vi consiglio di fare come ho fatto io ed ordinarne una copia da Amazon fin quando il cambio euro/dollaro ci è favorevole.

L’appuntamento con What’s Next #3 è per venerdì 19 settembre.

Si parlerà di e-social science a partire dagli spunti raccolti durante l’Oxford eResearch Conference 2008.

Per chi non può aspettare una settimana consiglio, come al solito, di seguire FriendFeed.