WikiRebels

Un documentario svedese racconta l’intrigante storia di WikiLeaks e del suo fondatore Julian Assange

Ogni rilascio di documenti contiene un secondo messaggio: creiamo degli esempi. Se ti comporti immoralmente, ingiustamente, questo comportamento verrà scoperto, verrà rivelato e ne subirai le conseguenze (Julian Assange)




Interessante documentario su WikiLeaks prodotto e trasmesso per la prima volta il 12 dicembre 2010 dalla televisione svedese SVT.


YouTube :Parte 2 | Parte 3 | Parte 4
Scarica il documentario in formato torrent – Sottotitoli in Italiano
Piccoli e grandi fughe di notizie possono cambiare il mondo. Oltre ai contenuti rivelati, conta il processo che c’è dietro.
Nel nostro Paese la diffusa ignoranza nell’uso delle nuove tecnologie presso chi occupa posizioni di potere (e spesso delle persone che essi scelgono come collaboratori) sommata a quella diffusa e radicata abitudine alla non trasparenza come metodo per la gestione del potere crea straordinari spazi per questo tipo di azioni.
Poi non dite che io non ve lo avevo detto 😉

Open Projects

Anticipazioni su quello che mi attende e vi attende per il 2011

[fb-share] Breve aggiornamento riguardo i programmi per il prossimo anno.
Il 10L’undici Gennaio alle 12 i miei studenti di Laboratorio di Web Content di Urbino (seguirà nel secondo semestre quello della sede di Pesaro) presentano i loro progetti di fine corso. Lo faranno usando il format Ignite (5 minuti di presentazione con 20 slide che avanzano automaticamente ogni 15 secondi). Gli studenti, divisi per gruppi, hanno realizzato e promosso progetti web basati su pagine Facebook che, sfruttando il principio di non discontinuità fra attività online ed offline, auspicano avere un impatto diretto sul territorio locale. In ballo c’è anche un piccolo contest su chi è riuscito ad attirare più Like, più check-in e suscitare il maggior livello di engagement. In pratica ci sarà da divertirsi. Siete tutti invitati ma per chi non potrà essere a Urbino stiamo organizzando uno streaming live.
[Evento su Facebook]
Sempre sul versante didattica non mancherà l’ormai tradizionale appuntamento con “le due settimane delle Teoria dell’Informazione” nell’ambito del corso di Sociologia della Comunicazione. In pratica un mini corso nel corso dedicato a raccontare i contenuti principali del mio libro Alle radici del futuro. Dalla teoria dell’informazione ai sistemi sociali. Non so di preciso quando sarà ma vi tengo informati. Non vi prometto niente ma se ce ne saranno le condizioni proverò a registrare e pubblicare le varie lezioni.
Passando alla ricerca sono al momento impegnato o mi impegnerò a breve su quattro progetti:
Il primo è una ricerca che riguarda YouTube ed in particolare il fenomeno di Gemma del Sud. Vorremmo cercare di capire il perchè ed il come di questa specifica forma di popolarità che appare basata più sullo scherno che sull’ammirazione. Vorremmo provare a capire se c’è una relazione fra questo tipo di successo e la configurazione del sistema dei media e della politica nel nostro Paese. Lo faremo attraverso un’analisi della letteratura che tratta casi di successo grassroots analoghi (come ad esempio il saggio citato in questo video).

Lo faremo attraverso l’analisi del contenuto degli 871 video e relativi commenti ed i 380 post raccolti con il software ContextMiner fra il 1 Luglio ed il 30 Novembre 2010. Seguirà un post con maggiori dettagli. Se tutto va bene io e Laura presenteremo questa ricerca durante la settima edizione di Media in Transition (MiT7 unstable platforms: the promise and peril of transition).
La seconda ricerca riguarda gli Online News Consumer in Italia. Prendendo spunto dall’indagine Understanding the Participatory News Consumer, realizzata dal mai abbastanza lodato Pew Internet & American Life Project, abbiamo deciso di cercare di capire meglio a che punto siamo su questo tema in Italia. Il questionario telefonico somministrato fra il 10 ed il 21 dicembre ad un campione di 1009 italiani con età superiore a 18 anni (proporzionale alla popolazione residente per genere ed età) è composto da tutte le domande dell’indagine Pew alle quali abbiamo aggiunto alcuni quesiti ulteriori legati più strettamente ad alcune ipotesi di ricerca che abbiamo in mente. I risultati di questa indagine saranno diffusi presto e credo ne sentirete parlare non solo in questo blog.
La terza ricerca, in collaborazione questa volta con Mario, consiste in un’analisi comparativa delle 10 più popolari pagine Facebook di politici italiani. La ricerca è ancora in una fase di progetto. Quello che sappiamo è che sperimenteremo l’uso di DiscoverText per reperire post e commenti delle pagine. Nonostante lo stato piuttosto embrionale del progetto abbiamo deciso lo stesso di proporre l’idea preparando un abstract che abbiamo presentato a  A Decade in Internet Time: Symposium on the Dynamics of the Internet and Society. Se l’abstract dovesse essere accettato lo presenteremo con poche modifiche anche a l’annuale conferenza internazionale dei ricercatori che studiano Internet: Internet Research 12.0 – Performance and Participation.
Infine l’ultima attività di ricerca, che in realtà per ragioni di calendario del progetto sarà fra le prime del nuovo anno, riguarda il mio coinvolgimento (e quello di Giovanni) nel progetto U-Loop (User-centric Wireless Local-Loop). U-Loop è un ambizioso progetto finanziato dalla commissione europea il cui scopo è progettare e realizzare una soluzione tecnologica basata su reti wireless fra pari in grado di sostituire il così detto ultimo miglio. In realtà l’accesso a Internet è solo uno dei servizi che possono essere offerti e fruiti attraverso una rete U-loop. In pratica device equipaggiati dalla tecnologia U-Loop saranno in grado di offrire e fruire di servizi offerti dagli altri device presenti. L’Università di Urbino (ed in particolare Alessandro Bogliolo che coordina l’unità di Urbino) ha il non facile compito di realizzare uno studio della sostenibilità socio-economica di questo tipo di tecnologia. La prima attività svolta in collaborazione con gli altri partner è stata la realizzazione e l’analisi di una serie di interessanti casi d’uso che vanno da inedite forme di marketing di prossimità fino a servizi simili a quelli offerti dai social network ma in modalità offline (cioè all’interno di un U-loop ma senza accesso a Internet). Non so bene a che livello di dettaglio posso parlare di questo progetto ma vi assicuro che quello che ho potuto vedere fino a questo momento mi fa ritenere che si tratti di una tecnologia promettente.  Oltre al progetto è molto interessante avere la possibilità di collaborare in un gruppo di ricerca interdisciplinare che va dagli informatici ai giuristi (che stanno facendo uno studio comparativo sulla legislazione sul wifi in Europa) fino agli economisti (che si occupano di studiare la sostenibilità economica delle soluzioni proposte). Anche su questo vi terrò informati.
Se uno di questi progetti vi interessa o state facendo qualcosa di analogo o anche vagamente simile (oppure se pensate di partecipare ad una delle conferenze che ho segnalato) non esitate a manifestarvi.
Ogni tipo di segnalazione, suggerimento o proposta di collaborazione è benvenuta.
La foto a corredo dell’articolo è pubblicata su Flickr da meddygarnet.

gemma del sud (MiT7)
news consumer
analysis of top 10 Italian politicians’s facebook pages (OII)
uloop

gemma del sud (MiT7)
news consumer
analysis of top 10 Italian politicians’s facebook pages (OII)
uloop

What’s next #S02E03: facebook.com/uniurbit

Breve storia dei primi mesi di vita pagina Facebook dell’Università di Urbino “Carlo Bo”Breve storia dei primi mesi di vita pagina Facebook dell’Università di Urbino “Carlo Bo”Breve storia dei primi mesi di vita pagina Facebook dell’Università di Urbino “Carlo Bo”

Era una mattina di aprile e mi trovavo nel mio ufficio, al LaRiCA.
Leggevo, come di solito, le news dal mondo della tecnologia ed una fra le altre attirò la mia attenzione… Facebook introduce le community page. Pagine per le comunità distinte dalle pagine ufficiali degli artisti, dei brand e delle organizzazioni. Mi sembrava mancasse uno spazio digitale proprio della comunità di uniurb e senza pensarci due volte ho creato una pagina dal titolo Università di Urbino “Carlo Bo”.
Subito dopo ho invitato Donatello e Tano a entrare nel gruppo degli admin. Nessuno dei tre aveva idea di quello che sarebbe successo dopo. Da quel giorno di aprile i frequentatori della pagina hanno iniziato a crescere prima in modo esponenziale (oltre 3400 nel primo mese) e poi in modo più graduale ma costante fino a superare quota 5000 (al momento sono 5367). La maggior parte sono donne (62%) e la fascia d’età più rappresentata è quella fra i 18 ed i 24 anni (45%). Uno sguardo alle città di provenienza vede in testa alla classifica Ancona e Roma (che superano entrambe i 1000 like) seguite da Ivrea, Milano, Rimini, Pescara a Taranto. Durante il mese di dicembre si è toccato il picco di quasi 3500 utenti attivi in un mese (Monthly Active Users). In particolare il 15 dicembre si sono registrati 1861 utenti attivi in un solo giorno. In media ci sono ogni mese circa 1400 “utenti attivi” e poco meno di un centinaio, fra questi, visitano la pagina quotidianamente ponendo quesiti, rispondendo a quelli degli altri e condividendo esperienze come una vera e propria comunità.
Nulla che non si facesse già prima per le strade di Urbino. Ora però tutto avviene più rapidamente. E questo è solo l’inizio.
Visita la pagina Facebook dell’Università di Urbino Carlo Bo
[extended version dell’articolo che potete leggere sul numero in distribuzione della rivista Open House]
[Photo by davidsilver]
Era una mattina di aprile e mi trovavo nel mio ufficio, al LaRiCA. Leggevo, come di solito, le news dal mondo della tecnologia ed una fra le altre attirò la mia attenzione… Facebook introduce le community page. Pagine per le comunità distinte dalle pagine ufficiali degli artisti, dei brand e delle organizzazioni. Mi sembrava mancasse uno spazio digitale proprio della comunità di uniurb e senza pensarci due volte ho creato una pagina dal titolo Università di Urbino “Carlo Bo”. Subito dopo ho invitato Donatello e Tano a entrare nel gruppo degli admin. Nessuno dei tre aveva idea di quello che sarebbe successo dopo. Da quel giorno di aprile i frequentatori della pagina hanno iniziato a crescere prima in modo esponenziale (oltre 3400 nel primo mese) e poi in modo più graduale ma costante fino a sfiorare quota 5000 (soglia probabilmente già superata quando leggerete questo pezzo). La maggior parte sono donne (62%) e la fascia d’età più rappresentata è quella fra i 18 ed i 24 anni (45%). Uno sguardo alle città di provenienza vede in testa alla classifica Ancona e Roma (che superano entrambe i 1000 like) seguite da Ivrea, Milano e Urbino. Ogni mese ci sono circa 1400 “utenti attivi” e poco meno di un centinaio, fra questi, visitano la pagina quotidianamente ponendo quesiti, rispondendo a quelli degli altri e condividendo esperienze come una vera e propria comunità. Nulla che non si facesse già prima per le strade di Urbino. Ora però tutto avviene più rapidamente. E questo è solo l’inizio.
Era una mattina di aprile e mi trovavo nel mio ufficio, al LaRiCA. Leggevo, come di solito, le news dal mondo della tecnologia ed una fra le altre attirò la mia attenzione… Facebook introduce le community page. Pagine per le comunità distinte dalle pagine ufficiali degli artisti, dei brand e delle organizzazioni. Mi sembrava mancasse uno spazio digitale proprio della comunità di uniurb e senza pensarci due volte ho creato una pagina dal titolo Università di Urbino “Carlo Bo”. Subito dopo ho invitato Donatello e Tano a entrare nel gruppo degli admin. Nessuno dei tre aveva idea di quello che sarebbe successo dopo. Da quel giorno di aprile i frequentatori della pagina hanno iniziato a crescere prima in modo esponenziale (oltre 3400 nel primo mese) e poi in modo più graduale ma costante fino a sfiorare quota 5000 (soglia probabilmente già superata quando leggerete questo pezzo). La maggior parte sono donne (62%) e la fascia d’età più rappresentata è quella fra i 18 ed i 24 anni (45%). Uno sguardo alle città di provenienza vede in testa alla classifica Ancona e Roma (che superano entrambe i 1000 like) seguite da Ivrea, Milano e Urbino. Ogni mese ci sono circa 1400 “utenti attivi” e poco meno di un centinaio, fra questi, visitano la pagina quotidianamente ponendo quesiti, rispondendo a quelli degli altri e condividendo esperienze come una vera e propria comunità. Nulla che non si facesse già prima per le strade di Urbino. Ora però tutto avviene più rapidamente. E questo è solo l’inizio.
 

The Facebook Effect: dal dormitorio di Harvard al mezzo miliardo di utenti

L’intrecciarsi della storia personale del fondatore e quella della piattaforma rendono The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World una lettura piacevole e fortemente consigliataL’intrecciarsi della storia personale del fondatore e quella della piattaforma rendono The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World una lettura piacevole e fortemente consigliataL’intrecciarsi della storia personale del fondatore e quella della piattaforma rendono The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World una lettura piacevole e fortemente consigliata

Ho appena finito di leggere The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (da non confondersi con Network Effect: quando la rete diventa pop 😉 ).
Il libro, scritto dal giornalista del New York Times David Kirkpatrick, racconta in modo ben organizzato ed affascinante la storia di Facebook dal lancio nel campus di Harvard fino ai giorni nostri. Ne viene fuori un interessante e per certi versi inedito ritratto del fondatore e attuale CEO Mark Zuckerberg.
Il libro si apre con un prologo che racconta la storia di Oscar Morales, fondatore del gruppo Un Millon de Voces Contra Las FARC, che da singolo cittadino indignato si è ritrovato a coordinare una marcia di protesta che ha coinvolto dieci milioni di colombiani.
Potere di Facebook o come direbbe l’autore del libro, effetto Facebook.


Non sono tuttavia gli episodi come quello di Oscar Morales (o gli altri raccontati nel capitolo 15 Changing Our Institution) a lasciare la sensazione di aver letto una storia straordinaria. Tutti questi fenomeni erano possibili anche con internet prima di Facebook. Quello che veramente colpisce è il tasso di crescita che il servizio ha avuto fin dall’inizio, segno di un bisogno profondo e globale, e la figura di Mark Zuckerberg.

Quando nel 2004 tutto è iniziato, Mark Zuckerberg, oggi ventiseienne, era una matricola di Harvard. I suoi compagni di stanza (Chris HugesEduardo SaverinDustin Moskovitz) diventarono subito parte del progetto Facebook. Uno di questi, Chris Huges, diventò ben presto il portavoce dell’azienda anche per sollevare Zuckerberg da questo impegno che trovava gravoso e poco interessante. Nel 2008 Huges ha coordinato la campagna in rete di Barack Obama.
“Cambieremo il mondo rendendolo un luogo più aperto”. Era questa una delle frasi che più spesso si sentiva pronunciare prima nei corridoi del dormitorio e poi nel nuovo quartier generale di Palo Alto (un’appartamento affittato per le vacanze estive dal quale i fondatori non fecero più ritorno ad Harvard). Una delle cose che colpisce leggendo il libro è proprio questa adesione alla missione specialmente da parte del fondatore che in più occasioni ha rifiutato importanti contratti pubblicitari perché richiedevano di modificare la forma e la posizione dei banner sulla piattaforma. In più passi emerge chiaramente questo tratto. Non è tanto importante fare soldi (altrimenti avrebbe accettato una delle tante cospicue offerte d’acquisto) quanto lavorare per migliorare l’esperienza che l’utente ha del servizio. Aumentare il numero degli utenti ed il loro livello di coinvolgimento (in termini di attività e minuti spesi).
Basti pensare che durante la prima settimana dal lancio (il 4 febbraio 2004) metà degli studenti di Harvard era iscritta a Facebook (o Thefacebook come si chiamava fino al 20 settembre 2005) e lo stesso livello di entusiasmo fu registrato in quasi tutti i campus dove il servizio veniva via via reso disponibile.

Over the summer, Zuckerberg, Moskovitz, and Parker had coined a term for how students seemed to use the site. They called it “the trance.” Once you started combing through Thefacebook it was very easy to just keep going. “It was hypnotic,” says Parker. “You’d just keep clicking and clicking and clicking from profile to profile, viewing the data.” The wall was intended to keep users even more transfixed by giving them more to see inside the service. It seemed to work. Almost immediately the wall became Thefacebook’s most popular feature.

Thefacebook era molto diverso da quello che oggi è Facebook perché consisteva essenzialmente di semplici profili corredati da foto ed interessi (niente foto oltre quella del profilo, messaggi interni e persino il wall fu aggiunto solo in seguito). Nonostante questo il servizio aveva un potere ipnotico sugli studenti (l’ 80% dei quali ritornava quotidianamente sul sito) che passavano ore navigando da un profilo a quello successivo.
Alla fine di Marzo 2004 Thefacebook aveva 30.000 utenti registrati. Il servizio costava $450 al mese per il noleggio dei server. Alla fine di maggio il social network di Mark Zuckerberg era presente in 34 atenei per un totale di 100.000 utenti. Facebook è oggi il social network più utilizzato in 111 dei 131 paesi analizzati da Vicenzo Cosenza nella sua mappa World Map of Social Networks. A sei anni dal lancio il servizio è prossimo al superamento 500.000.000 di utenti nel mondo.
Un momento di svolta fu il lancio dell’applicazione per le foto con la possibilità di taggare i propri amici.
Un mese dopo l’85% degli utenti di Facebook erano stati taggati in almeno una foto. Dopo sei settimane l’applicazione per le foto aveva consumato tutto lo spazio disco che era stato programmato per i successivi sei mesi. Ma la cosa più importante fu che per la prima volta si era capita l’importanza del grafo sociale per connettere persone e contenuti fra di loro.

Would people accept low-resolution photos? Would they use the tags? On the day in late October when the team turned the Photos application on, they nervously watched a big monitor that displayed every picture as it was uploaded. The first image was a cartoon of a cat. They looked at each other worriedly. Then in a minute or so they started seeing photos of girls—girls in groups, girls at parties, girls shooting photos of other girls. And these photos were being tagged! The girls just kept coming.

Lo sviluppo del contestatissimo News Feed fu il logico passo successivo. Incorporare la logica del flusso RSS in Facebook facendo in modo che fossero le informazioni sugli aggiornamenti ad arrivare agli utenti e non viceversa. L’introduzione del News Feed fu inoltre un importante banco di prova per la gestione delle relazioni fra utenti e sviluppatori del servizio. Il giorno stesso del lancio del News Feed uno studente della Northwestern University dell’Illinois creò il gruppo “Students Against Facebook news feed”. In tre ore il gruppo raggiunse i 13.000 iscritti. Alla fine della settimana il gruppo poteva contava 700.000 membri. Circa il 10% degli utenti di Facebook stava usando gli strumenti messi a disposizione della piattaforma per protestare contro Facebook. Solo l’aggiunta di nuove impostazioni di privacy che consentivano agli utenti di decidere cosa mostrare o nascondere nel News Feed, placò le ire e scongiurò la minaccia di una manifestazione (che si sarebbe dovuta tenere di fronte a Palo Alto) auto-convocata attraverso i numerosi gruppi creati in segno di protesta.
Da quel primo episodio di poi tutte le continue innovazioni proposte da Facebook verranno accolte dalle proteste degli utenti. In uno specifico caso, quello di Facebook Beacon – un servizio che notificava automaticamente gli amici alcune attività svolte su siti esterni a Facebook, gli sviluppatori furono costretti a tornare sui loro passi ammettendo l’errore di implementazione e rendendo la funzione disponibile solo a richiesta. Oggi a diversi anni di distanza caratteristiche analoghe a quelle di Facebook Beacon sono state lentamente re-introdotte attraverso funzionalità quali Facebook Connect.
Nel libro si raccontano tanti piccoli e grandi episodi come questi (da non perdere la crisi di pianto di Zuckerberg nei bagni del Village Pub, a nord di Palo Alto e quello nel quale il CEO di Facebook domandò, durante una cena a Davos, a Lerry Page – co-fondatore di Google – se lui usasse Facebook).
Si tratta di una lettura piacevole ed interessante. La sensazione a tratti è che l’immagine che emerge del fondatore e della società sia troppo positiva. Nell’ultima parte del libro David Kirkpatrick dichiara di non aver ricevuto nessuna pressione da parte di Facebook e non c’è motivo di non credergli. In altre pagine tuttavia l’autore racconta in modo aperto della sua partecipazione ad eventi promozionali come il tour europeo di Zuckerberg. Questa vicinanza non può non aver influenzato le sue idee. Non tutto quello che luccica è oro, ma questo lo sapete già.
Al di là di questo, la straordinaria storia di una società fondata da un diciannovenne e portata nel giro di 6 anni ad un valore stimato di oltre due milioni di dollari, rimane una lettura avvincente e totalmente consigliata.
Leggetevi il libro e fatevi la vostra idea.
P.S. The Facebook Effect è stato il primo libro che ho acquistato per Kindle. L’esperienza di lettura è stata eccellente. La possibilità di leggere in piena luce, di continuare la lettura su PC dalla pagina alla quale ci si era fermati sul lettore e viceversa, le possibilità di annotare parti del testo e di condividerle, grazie al nuovo firmware, via Twitter e Facebook mi hanno veramente entusiasmato. E da ieri il Kindle è anche disponibile a prezzo ribassato a poco più di € 150. Cosa aspettate a comprarlo?

Ho appena finito di leggere The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (da non confondersi con Network Effect: quando la rete diventa pop 😉 ).

Il libro, scritto dal giornalista del New York Times David Kirkpatrick, racconta in modo ben organizzato ed affascinante la storia di Facebook dal lancio nel campus di Harvard fino ai giorni nostri. Ne viene fuori un interessante e per certi versi inedito ritratto del fondatore e attuale CEO Mark Zuckerberg.

Il libro si apre con un prologo che racconta la storia di Oscar Morales, fondatore del gruppo Un Millon de Voces Contra Las FARC, che da singolo cittadino indignato si è ritrovato a coordinare una marcia di protesta che ha coinvolto dieci milioni di colombiani.

Potere di Facebook o come direbbe l’autore del libro, effetto Facebook.

the facebook effect

Non sono tuttavia gli episodi come quello di Oscar Morales (o gli altri raccontati nel capitolo 15 Changing Our Institution) a lasciare la sensazione di aver letto una storia straordinaria. Tutti questi fenomeni erano possibili anche con internet prima di Facebook. Quello che veramente colpisce è il tasso di crescita che il servizio ha avuto fin dall’inizio, segno di un bisogno profondo e globale, e la figura di Mark Zuckerberg.

Quando nel 2004 tutto è iniziato, Mark Zuckerberg, oggi ventiseienne, era una matricola di Harvard. I suoi compagni di stanza (Chris HugesEduardo SaverinDustin Moskovitz) diventarono subito parte del progetto Facebook. Uno di questi, Chris Huges, diventò ben presto il portavoce dell’azienda anche per sollevare Zuckerberg da questo impegno che trovava gravoso e poco interessante. Nel 2008 Huges ha coordinato la campagna in rete di Barack Obama.

“Cambieremo il mondo rendendolo un luogo più aperto”. Era questa una delle frasi che più spesso si sentiva pronunciare prima nei corridoi del dormitorio e poi nel nuovo quartier generale di Palo Alto (un’appartamento affittato per le vacanze estive dal quale i fondatori non fecero più ritorno ad Harvard). Una delle cose che colpisce leggendo il libro è proprio questa adesione alla missione specialmente da parte del fondatore che in più occasioni ha rifiutato importanti contratti pubblicitari perché richiedevano di modificare la forma e la posizione dei banner sulla piattaforma. In più passi emerge chiaramente questo tratto. Non è tanto importante fare soldi (altrimenti avrebbe accettato una delle tante cospicue offerte d’acquisto) quanto lavorare per migliorare l’esperienza che l’utente ha del servizio. Aumentare il numero degli utenti ed il loro livello di coinvolgimento (in termini di attività e minuti spesi).

Basti pensare che durante la prima settimana dal lancio (il 4 febbraio 2004) metà degli studenti di Harvard era iscritta a Facebook (o Thefacebook come si chiamava fino al 20 settembre 2005) e lo stesso livello di entusiasmo fu registrato in quasi tutti i campus dove il servizio veniva via via reso disponibile.

Over the summer, Zuckerberg, Moskovitz, and Parker had coined a term for how students seemed to use the site. They called it “the trance.” Once you started combing through Thefacebook it was very easy to just keep going. “It was hypnotic,” says Parker. “You’d just keep clicking and clicking and clicking from profile to profile, viewing the data.” The wall was intended to keep users even more transfixed by giving them more to see inside the service. It seemed to work. Almost immediately the wall became Thefacebook’s most popular feature.

Thefacebook era molto diverso da quello che oggi è Facebook perché consisteva essenzialmente di semplici profili corredati da foto ed interessi (niente foto oltre quella del profilo, messaggi interni e persino il wall fu aggiunto solo in seguito). Nonostante questo il servizio aveva un potere ipnotico sugli studenti (l’ 80% dei quali ritornava quotidianamente sul sito) che passavano ore navigando da un profilo a quello successivo.

Alla fine di Marzo 2004 Thefacebook aveva 30.000 utenti registrati. Il servizio costava $450 al mese per il noleggio dei server. Alla fine di maggio il social network di Mark Zuckerberg era presente in 34 atenei per un totale di 100.000 utenti. Facebook è oggi il social network più utilizzato in 111 dei 131 paesi analizzati da Vicenzo Cosenza nella sua mappa World Map of Social Networks. A sei anni dal lancio il servizio è prossimo al superamento 500.000.000 di utenti nel mondo.

Un momento di svolta fu il lancio dell’applicazione per le foto con la possibilità di taggare i propri amici.

Un mese dopo l’85% degli utenti di Facebook erano stati taggati in almeno una foto. Dopo sei settimane l’applicazione per le foto aveva consumato tutto lo spazio disco che era stato programmato per i successivi sei mesi. Ma la cosa più importante fu che per la prima volta si era capita l’importanza del grafo sociale per connettere persone e contenuti fra di loro.

Would people accept low-resolution photos? Would they use the tags? On the day in late October when the team turned the Photos application on, they nervously watched a big monitor that displayed every picture as it was uploaded. The first image was a cartoon of a cat. They looked at each other worriedly. Then in a minute or so they started seeing photos of girls—girls in groups, girls at parties, girls shooting photos of other girls. And these photos were being tagged! The girls just kept coming.

Lo sviluppo del contestatissimo News Feed fu il logico passo successivo. Incorporare la logica del flusso RSS in Facebook facendo in modo che fossero le informazioni sugli aggiornamenti ad arrivare agli utenti e non viceversa. L’introduzione del News Feed fu inoltre un importante banco di prova per la gestione delle relazioni fra utenti e sviluppatori del servizio. Il giorno stesso del lancio del News Feed uno studente della Northwestern University dell’Illinois creò il gruppo “Students Against Facebook news feed”. In tre ore il gruppo raggiunse i 13.000 iscritti. Alla fine della settimana il gruppo poteva contava 700.000 membri. Circa il 10% degli utenti di Facebook stava usando gli strumenti messi a disposizione della piattaforma per protestare contro Facebook. Solo l’aggiunta di nuove impostazioni di privacy che consentivano agli utenti di decidere cosa mostrare o nascondere nel News Feed, placò le ire e scongiurò la minaccia di una manifestazione (che si sarebbe dovuta tenere di fronte a Palo Alto) auto-convocata attraverso i numerosi gruppi creati in segno di protesta.

Da quel primo episodio di poi tutte le continue innovazioni proposte da Facebook verranno accolte dalle proteste degli utenti. In uno specifico caso, quello di Facebook Beacon – un servizio che notificava automaticamente gli amici alcune attività svolte su siti esterni a Facebook, gli sviluppatori furono costretti a tornare sui loro passi ammettendo l’errore di implementazione e rendendo la funzione disponibile solo a richiesta. Oggi a diversi anni di distanza caratteristiche analoghe a quelle di Facebook Beacon sono state lentamente re-introdotte attraverso funzionalità quali Facebook Connect.

Nel libro si raccontano tanti piccoli e grandi episodi come questi (da non perdere la crisi di pianto di Zuckerberg nei bagni del Village Pub, a nord di Palo Alto e quello nel quale il CEO di Facebook domandò, durante una cena a Davos, a Lerry Page – co-fondatore di Google – se lui usasse Facebook).

Si tratta di una lettura piacevole ed interessante. La sensazione a tratti è che l’immagine che emerge del fondatore e della società sia troppo positiva. Nell’ultima parte del libro David Kirkpatrick dichiara di non aver ricevuto nessuna pressione da parte di Facebook e non c’è motivo di non credergli. In altre pagine tuttavia l’autore racconta in modo aperto della sua partecipazione ad eventi promozionali come il tour europeo di Zuckerberg. Questa vicinanza non può non aver influenzato le sue idee. Non tutto quello che luccica è oro, ma questo lo sapete già.

Al di là di questo, la straordinaria storia di una società fondata da un diciannovenne e portata nel giro di 6 anni ad un valore stimato di oltre due milioni di dollari, rimane una lettura avvincente e totalmente consigliata.

Leggetevi il libro e fatevi la vostra idea.

P.S. The Facebook Effect è stato il primo libro che ho acquistato per Kindle. L’esperienza di lettura è stata eccellente. La possibilità di leggere in piena luce, di continuare la lettura su PC dalla pagina alla quale ci si era fermati sul lettore e viceversa, le possibilità di annotare parti del testo e di condividerle, grazie al nuovo firmware, via Twitter e Facebook mi hanno veramente entusiasmato. E da ieri il Kindle è anche disponibile a prezzo ribassato a poco più di € 150. Cosa aspettate a comprarlo?

Update nuovi Kindle

Ho appena finito di leggere The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (da non confondersi con Network Effect: quando la rete diventa pop 😉 ).

Il libro, scritto dal giornalista del New York Times David Kirkpatrick, racconta in modo ben organizzato ed affascinante la storia di Facebook dal lancio nel campus di Harvard fino ai giorni nostri. Ne viene fuori un interessante e per certi versi inedito ritratto del fondatore e attuale CEO Mark Zuckerberg.

Il libro si apre con un prologo che racconta la storia di Oscar Morales, fondatore del gruppo Un Millon de Voces Contra Las FARC, che da singolo cittadino indignato si è ritrovato a coordinare una marcia di protesta che ha coinvolto dieci milioni di colombiani.

Potere di Facebook o come direbbe l’autore del libro, effetto Facebook.

the facebook effect

Non sono tuttavia gli episodi come quello di Oscar Morales (o gli altri raccontati nel capitolo 15 Changing Our Institution) a lasciare la sensazione di aver letto una storia straordinaria. Tutti questi fenomeni erano possibili anche con internet prima di Facebook. Quello che veramente colpisce è il tasso di crescita che il servizio ha avuto fin dall’inizio, segno di un bisogno profondo e globale, e la figura di Mark Zuckerberg.

Quando nel 2004 tutto è iniziato, Mark Zuckerberg, oggi ventiseienne, era una matricola di Harvard. I suoi compagni di stanza (Chris HugesEduardo SaverinDustin Moskovitz) diventarono subito parte del progetto Facebook. Uno di questi, Chris Huges, diventò ben presto il portavoce dell’azienda anche per sollevare Zuckerberg da questo impegno che trovava gravoso e poco interessante. Nel 2008 Huges ha coordinato la campagna in rete di Barack Obama.

“Cambieremo il mondo rendendolo un luogo più aperto”. Era questa una delle frasi che più spesso si sentiva pronunciare prima nei corridoi del dormitorio e poi nel nuovo quartier generale di Palo Alto (un’appartamento affittato per le vacanze estive dal quale i fondatori non fecero più ritorno ad Harvard). Una delle cose che colpisce leggendo il libro è proprio questa adesione alla missione specialmente da parte del fondatore che in più occasioni ha rifiutato importanti contratti pubblicitari perché richiedevano di modificare la forma e la posizione dei banner sulla piattaforma. In più passi emerge chiaramente questo tratto. Non è tanto importante fare soldi (altrimenti avrebbe accettato una delle tante cospicue offerte d’acquisto) quanto lavorare per migliorare l’esperienza che l’utente ha del servizio. Aumentare il numero degli utenti ed il loro livello di coinvolgimento (in termini di attività e minuti spesi).

Basti pensare che durante la prima settimana dal lancio (il 4 febbraio 2004) metà degli studenti di Harvard era iscritta a Facebook (o Thefacebook come si chiamava fino al 20 settembre 2005) e lo stesso livello di entusiasmo fu registrato in quasi tutti i campus dove il servizio veniva via via reso disponibile.

Over the summer, Zuckerberg, Moskovitz, and Parker had coined a term for how students seemed to use the site. They called it “the trance.” Once you started combing through Thefacebook it was very easy to just keep going. “It was hypnotic,” says Parker. “You’d just keep clicking and clicking and clicking from profile to profile, viewing the data.” The wall was intended to keep users even more transfixed by giving them more to see inside the service. It seemed to work. Almost immediately the wall became Thefacebook’s most popular feature.

Thefacebook era molto diverso da quello che oggi è Facebook perché consisteva essenzialmente di semplici profili corredati da foto ed interessi (niente foto oltre quella del profilo, messaggi interni e persino il wall fu aggiunto solo in seguito). Nonostante questo il servizio aveva un potere ipnotico sugli studenti (l’ 80% dei quali ritornava quotidianamente sul sito) che passavano ore navigando da un profilo a quello successivo.

Alla fine di Marzo 2004 Thefacebook aveva 30.000 utenti registrati. Il servizio costava $450 al mese per il noleggio dei server. Alla fine di maggio il social network di Mark Zuckerberg era presente in 34 atenei per un totale di 100.000 utenti. Facebook è oggi il social network più utilizzato in 111 dei 131 paesi analizzati da Vicenzo Cosenza nella sua mappa World Map of Social Networks. A sei anni dal lancio il servizio è prossimo al superamento 500.000.000 di utenti nel mondo.

Un momento di svolta fu il lancio dell’applicazione per le foto con la possibilità di taggare i propri amici.

Un mese dopo l’85% degli utenti di Facebook erano stati taggati in almeno una foto. Dopo sei settimane l’applicazione per le foto aveva consumato tutto lo spazio disco che era stato programmato per i successivi sei mesi. Ma la cosa più importante fu che per la prima volta si era capita l’importanza del grafo sociale per connettere persone e contenuti fra di loro.

Would people accept low-resolution photos? Would they use the tags? On the day in late October when the team turned the Photos application on, they nervously watched a big monitor that displayed every picture as it was uploaded. The first image was a cartoon of a cat. They looked at each other worriedly. Then in a minute or so they started seeing photos of girls—girls in groups, girls at parties, girls shooting photos of other girls. And these photos were being tagged! The girls just kept coming.

Lo sviluppo del contestatissimo News Feed fu il logico passo successivo. Incorporare la logica del flusso RSS in Facebook facendo in modo che fossero le informazioni sugli aggiornamenti ad arrivare agli utenti e non viceversa. L’introduzione del News Feed fu inoltre un importante banco di prova per la gestione delle relazioni fra utenti e sviluppatori del servizio. Il giorno stesso del lancio del News Feed uno studente della Northwestern University dell’Illinois creò il gruppo “Students Against Facebook news feed”. In tre ore il gruppo raggiunse i 13.000 iscritti. Alla fine della settimana il gruppo poteva contava 700.000 membri. Circa il 10% degli utenti di Facebook stava usando gli strumenti messi a disposizione della piattaforma per protestare contro Facebook. Solo l’aggiunta di nuove impostazioni di privacy che consentivano agli utenti di decidere cosa mostrare o nascondere nel News Feed, placò le ire e scongiurò la minaccia di una manifestazione (che si sarebbe dovuta tenere di fronte a Palo Alto) auto-convocata attraverso i numerosi gruppi creati in segno di protesta.

Da quel primo episodio di poi tutte le continue innovazioni proposte da Facebook verranno accolte dalle proteste degli utenti. In uno specifico caso, quello di Facebook Beacon – un servizio che notificava automaticamente gli amici alcune attività svolte su siti esterni a Facebook, gli sviluppatori furono costretti a tornare sui loro passi ammettendo l’errore di implementazione e rendendo la funzione disponibile solo a richiesta. Oggi a diversi anni di distanza caratteristiche analoghe a quelle di Facebook Beacon sono state lentamente re-introdotte attraverso funzionalità quali Facebook Connect.

Nel libro si raccontano tanti piccoli e grandi episodi come questi (da non perdere la crisi di pianto di Zuckerberg nei bagni del Village Pub, a nord di Palo Alto e quello nel quale il CEO di Facebook domandò, durante una cena a Davos, a Lerry Page – co-fondatore di Google – se lui usasse Facebook).

Si tratta di una lettura piacevole ed interessante. La sensazione a tratti è che l’immagine che emerge del fondatore e della società sia troppo positiva. Nell’ultima parte del libro David Kirkpatrick dichiara di non aver ricevuto nessuna pressione da parte di Facebook e non c’è motivo di non credergli. In altre pagine tuttavia l’autore racconta in modo aperto della sua partecipazione ad eventi promozionali come il tour europeo di Zuckerberg. Questa vicinanza non può non aver influenzato le sue idee. Non tutto quello che luccica è oro, ma questo lo sapete già.

Al di là di questo, la straordinaria storia di una società fondata da un diciannovenne e portata nel giro di 6 anni ad un valore stimato di oltre due milioni di dollari, rimane una lettura avvincente e totalmente consigliata.

Leggetevi il libro e fatevi la vostra idea.

P.S. The Facebook Effect è stato il primo libro che ho acquistato per Kindle. L’esperienza di lettura è stata eccellente. La possibilità di leggere in piena luce, di continuare la lettura su PC dalla pagina alla quale ci si era fermati sul lettore e viceversa, le possibilità di annotare parti del testo e di condividerle, grazie al nuovo firmware, via Twitter e Facebook mi hanno veramente entusiasmato. E da ieri il Kindle è anche disponibile a prezzo ribassato a poco più di € 150. Cosa aspettate a comprarlo?

Update nuovi Kindle

Attivismo digitale e nuove forme della rappresentanza politica

Partendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioniPartendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioniPartendo da tre interessanti casi di studio, Clay Shirky mette in guardia dai limiti delle forme di rappresentanza politica online e propone alcune interessanti soluzioni

[fb-share] Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?
Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.
Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.
Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.
La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.
we gov
Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.
A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.
Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:
1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.
2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.
3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.
4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.
Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?

Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.

Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.

Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.

La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.

we gov

Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.

A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.

Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:

1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.

2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.

3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.

4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.

Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

Come cambiano le forme di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi quando il costo della comunicazione è prossimo allo zero? Cosa accade quando basta un click per esprimere la propria adesione ad una causa? Come occorre ripensare le forme della partecipazione evitando il rischio della dittatura delle lobby ben organizzate?

Lo racconta Clay Shirky in questo delizioso speech presentato durante l’ultimo Personal Democracy Forum.

Lo fa, come suo solito, partendo da tre esempi.

Il primo esempio viene dall’India. Nel gennaio 2009 un gruppo fondamentalista Hindu si rese protagonista di una serie di pestaggi nei confronti delle donne che frequentavano bar e pub. Il gruppo dichiarò di voler difendere, attraverso questo atto, la cultura indiana minacciata dai costumi occidentali e minacciò di ripetere le violenze contro tutte le donne intenzionate ad uscire per la festa di San Valentino. Per protestare contro le violenze e  le minacce una giornalista di 29 anni decise di fondare un gruppo su Facebook. Il giorno successivo il Consortium of Pub-going, Loose and Forward Women aveva già 500 membri. Scopo del gruppo era quello di invogliare le donne ad uscire la sera di San Valentino a dispetto delle minacce ricevute. San Valentino passò senza particolari incidenti ma gli attacchi alle donne continuarono. A questo punto il gruppo lanciò una campagna semplice ma efficace. Ogni attivista del gruppo avrebbe dovuto inviare un paio di mutande rosa al leader degli estremisti del Sri Ram Sena (SRS) – the Lord Ram’s Army. Questa inusuale forma di protesta ebbe una grande eco nella stampa indiana ed internazionale forzando il governo indiano ad intervenire attivamente per proteggere le donne minacciate dal gruppo di estremisti.

La seconda storia non riguarda la politica. Nel 1998 la versione online della rivista People decise di lanciare una campagna chiedendo ai propri lettori di scegliere i loro preferiti da una lista di 50 nomi per compilare la celebre classifica dei 50 personaggi americani più attraenti dell’anno. In seguito alla richiesta degli utenti, People decise inoltre di aprire la lista ai suggerimenti del pubblico. Non avevano calcolato bene quanto i fan volessero bene a Hank the Angry Drunken Dwarf. Un gruppo agguerrito e ben organizzato mise in piedi una campagna per supportare questo personaggio che si classificò primo della lista con oltre 250.000 voti (secondo classificato con 150.000 voti un wrestler professionista mentre Leonardo di Caprio si piazzò terzo con 41.000 voti).  Il magazine People, dopo aver solennemente promesso di riportare sulla rivista il risultato delle scelte dei lettori, ritornò sui suoi passi. Si tratta di un esempio di come queste forme di partecipazione possano essere forzate da gruppi relativamente poco numerosi ma molto agguerriti.

we gov

Il terzo esempio riguarda invece Change.gov. Il sito realizzato dallo staff di Barack Obama ed attivo nel periodo di transizione successivo all’elezione e precedente all’insediamento alla Casa Bianca, aveva fra gli altri obiettivi quello di promuovere la partecipazione degli elettori ai quali veniva chiesto di individuare le tematiche più importanti che il nuovo inquilino della casa bianca avrebbe dovuto affrontare una volta insediato. A prevalere su temi quali la crisi economica e la guerra in Iraq fu, non senza qualche sorpresa, l’uso medico della marijuana. Anche in questo caso un gruppo agguerrito e ben organizzato aveva fatto in modo di imporsi all’attenzione forzando le regole del gioco.

A questo punto Shirky si chiede come si collochi questo ultimo esempio rispetto ai primi due. Il primo è caratterizzato dal fatto che le istanze legittime di un gruppo non altrimenti rappresentato entrano nell’agenda politica, il secondo mostra come un gruppo ben organizzato possa forzare il meccanismo di partecipazione… quest’ultimo caso si pone in qualche modo nel mezzo perchè le istanze portate dal gruppo di attivisti che sostiene la legalizzazione dell’uso medico della marijuana sono legittime ma la modalità attraverso le quali hanno ottenuto l’attenzione al limite della forzatura.

Dunque il problema è costruire modelli di rappresentanza che non prestino il fianco a queste forme di forzatura. Per fare questo Shirky suggerisce le seguenti quattro strategie:

1) Aumentare il costo della comunicazione. Fino a quando basta un singolo click a votare o esprimere il proprio parere su un certo tema si correrà il rischio che il rapporto fra segnale e rumore nell’attivismo digitale sarà sempre a favore del secondo. La competizione si sposta dal porre un tema all’ordine del giorno a generare una campagna efficace che produca un quantitativo superiore di email (o adesioni ad un gruppo, like o fan). Ci si sposta dall’arena della politica a quella delle pubbliche relazioni. Se la giornalista indiana che ha ideato la campagna delle mutande rosa si fosse limitata ad aprire un gruppo su Facebook sarebbe stato un caso interessante, ma quello che ha fatto la differenza è ciò che ha spinto quelle donne a privarsi di un bene che possedevano ed utilizzare il tempo necessario ad imballare e spedire il pacco al destinatario.

2) Progettare le forme della partecipazione per gruppi e non solo per aggregati. Si tratta di fare in modo che le persone che si raccolgono intorno ad una tematica non si limitino semplicemente ad aggiungere il proprio nome alla lista (McDonald Business Model) ma agiscano attivamente a favore della causa che si propongono. Per esempio i gruppi Meetup Ping Pong non possono formarsi se, oltre ad avere un certo numero di membri, non trovano anche un gruppo di individui che si dichiari disposto ad agire come coordinatori del meetup.

3) Considerare sempre l’esistenza di fazioni e lobby. Bisogna trovare il modo per lasciare a ciascuna fazione la possibilità di esprimersi senza per questo oscurare le altre. Ad esempio, dice Shirky, se nel progettare Change.gov avessero evitato di creare una classifica unica di temi e priorità aggregando le tematiche simili e lasciano che ciascuno gruppo si esprimesse liberamente al suo interno promuovendo idee e proponendo tematiche si sarebbe potuto evitare quell’effetto competitivo che ha mosso gli attivisti della legalizzazione della cannabis.

4) Trattare i rappresentati eletti come partner e non come un target. Quando si organizza una campagna per sollecitare un rappresentante politico su una certa tematica bisognerebbe uscire dalla logica del bigger is better. Meglio inviare qualche migliaia di messaggi scritti da persone con un alto livello di interesse verso una certa causa e magari appartenenti ad una certa area geografica di riferimento e che hanno partecipato al voto rispetto a miliardi di messaggi standard di una massa di persone anonime e poco o nulla interessate. Se non si esce da questa logica che compete sulla quantità piuttosto che sulla qualità si rischia, secondo Shirky, di allontanarsi sempre più dall’idea di un ambiente di conversazione a supporto della partecipazione democratica scivolando invece verso una sorta di pubbliche relazioni affidate alle masse.

Ecco il video integrale.

[Photo uploaded on September 27, 2008 by dharmabumx]

What’s next #S02E01: quando finisce un amore… ai tempi di Facebook

Che ci piaccia o no certe relazioni sono destinate a finire. Non è mai facile gestire il passaggio, ma con Facebook la cosa può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Ecco una breve guida a cosa fare e non fare… Che ci piaccia o no certe relazioni sono destinate a finire. Non è mai facile gestire il passaggio, ma con Facebook la cosa può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Ecco una breve guida a cosa fare e non fare…

E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]
E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]
E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]

Crescere online in una nazione digitale

Due documentari da non perdere direttamente dal programma Frontline della Public Broadcasting ServiceDue documentari da non perdere direttamente dal programma Frontline della Public Broadcasting ServiceDue documentari da non perdere direttamente dal programma Frontline della Public Broadcasting Service

Ho appena finito di vedere questi due documentari trasmessi nell’ambito del programma Frontline della tv pubblica americana PBS. Il primo, intitolato Growing Up Online è stato mandato in onda il 22 gennaio 2008 ed il secondo, Digital Nation,  il 2 febbraio 2010.
Credo sia interessante vedere le differenze. L’approccio, in entrambi i casi, è piuttosto critico e talvolta discutibile. È  interessante tuttavia che il progetto non si esaurisca con la messa in onda dei documentari. In questa sezione del sito, ad esempio, sono raccolte le storie di vita digitale inviate dagli spettatori. Da non perdere inoltre l’intervista integrale a Sherry Turkle.
Ecco il più recente dei due documentari. Dura poco meno di un’ora e mezza. Buona visione.

Mi piacerebbe vedere questi documentari trasmessi in Italia. Speriamo che quelli di Current o di Report siano in ascolto 😉
P.S. Anche Growing Up Online può essere visto direttamente online.

Ho appena finito di vedere questi due documentari trasmessi nell’ambito del programma Frontline della tv pubblica americana PBS. Il primo, intitolato Growing Up Online è stato mandato in onda il 22 gennaio 2008 ed il secondo, Digital Nation,  il 2 febbraio 2010.

Credo sia interessante vedere le differenze. L’approccio, in entrambi i casi, è piuttosto critico e talvolta discutibile. È  interessante tuttavia che il progetto non si esaurisca con la messa in onda dei documentari. In questa sezione del sito, ad esempio, sono raccolte le storie di vita digitale inviate dagli spettatori. Da non perdere inoltre l’intervista integrale a Sherry Turkle.

Ecco il più recente dei due documentari. Dura poco meno di un’ora e mezza. Buona visione.

Mi piacerebbe vedere questi documentari trasmessi in Italia. Speriamo che quelli di Current o di Report siano in ascolto 😉

P.S. Anche Growing Up Online può essere visto direttamente online.

Ho appena finito di vedere questi due documentari trasmessi nell’ambito del programma Frontline della tv pubblica americana PBS. Il primo, intitolato Growing Up Online è stato mandato in onda il 22 gennaio 2008 ed il secondo, Digital Nation,  il 2 febbraio 2010.

Credo sia interessante vedere le differenze. L’approccio, in entrambi i casi, è piuttosto critico e talvolta discutibile. È  interessante tuttavia che il progetto non si esaurisca con la messa in onda dei documentari. In questa sezione del sito, ad esempio, sono raccolte le storie di vita digitale inviate dagli spettatori. Da non perdere inoltre l’intervista integrale a Sherry Turkle.

Ecco il più recente dei due documentari. Dura poco meno di un’ora e mezza. Buona visione.

Mi piacerebbe vedere questi documentari trasmessi in Italia. Speriamo che quelli di Current o di Report siano in ascolto 😉

P.S. Anche Growing Up Online può essere visto direttamente online.

Lost e i 7 principi del transmedia storytelling

L’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry JenkinsL’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry JenkinsL’epilogo della saga dei naufraghi del volo Oceanic 815 offre lo spunto per parlare dei sette principi del transmedia storytelling di Henry Jenkins

[spoiler free]
Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).
Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.
Ma partiamo dalla definizione.
Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.
Ed ecco i sette principi:
1. Spreadability vs. Drillability
Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).
Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).
2. Continuity vs. Multiplicity
La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.
In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).
3. Immersion vs. Extractability
Jack Action Figure
Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.
Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.
4. Worldbuilding
Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.
Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?
5. Seriality
Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.
Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.
6. Subjectivity
Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)
Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.
7. Performance
A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.
[Photo uploaded on January 23, 2008 by Subspace]

[spoiler free]

Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).

Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.

Ma partiamo dalla definizione.

Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.

Ed ecco i sette principi:

1. Spreadability vs. Drillability

Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).

Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).

2. Continuity vs. Multiplicity

La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.

In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).

3. Immersion vs. Extractability

Jack Action Figure

Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.

Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.

4. Worldbuilding

Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.

Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?

5. Seriality

Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.

Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.

6. Subjectivity

Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)

Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.

7. Performance

A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.

[Photo uploaded on January 23, 2008 by Subspace]

[spoiler free]

Ieri notte (o stamattina per chi è in Italia) è andata in onda la puntata finale della sesta ed ultima stagione di Lost (non c’è bisogno che vi spieghi cos’è Lost vero?).

Per celebrare degnamente questo evento, vi propongo una mia personale traduzione e sintesi dei sette principi del transmedia storytelling (narrativa trans-mediale) enunciati da Henry Jenkins durante il suo intervento “Revenge of the Origami Unicorn” al Futures of Entertainment 4 (per chi volesse leggere l’originale, oltre al video, c’è anche una traccia in due parti della relazione sul suo blog: parte 1, parte 2). La sintesi è corredata da esempi tratti da Lost.

Ma partiamo dalla definizione.

Si tratta, secondo Jenkins, di “un processo nel quale elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi su molteplici canali di distribuzione con lo scopo di creare una esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Ogni medium, idealmente, offre il proprio specifico contributo allo sviluppo della storia”. Questo processo è arricchito e complicato dalla produzione di contenuti da parte dei fan. Questi contenuti talvolta potenziano, talvolta complicano l’idea di “esperienza di intrattenimento unificata e coordinata”.

Ed ecco i sette principi:

1. Spreadability vs. Drillability

Il concetto di spreadability (che potremmo tradurre come capacità di un contenuto di diffondersi attraverso le reti sociali) è proposto da Jenkins come alternativa all’idea di viralità. Secondo l’autore, la metafora della viralità è infatti forviante perché lascia supporre che il contenuto si diffonda nelle reti sociali a prescindere dalla (e talvolta contro la) volontà dei singoli nodi (come avviene appunto per i virus). Il concetto di drillability, come proposto da Jason Mittell, mette invece in luce la capacità di un contenuto mediale di invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando nella sua complessità. Se la spreadabilty agisce orizzontalmente consentendo di aumentare rapidamente il numero di visualizzazioni senza necessariamente aumentare il coinvolgimento dello spettatore, la drillabity agisce invece su un vettore della profondità che si pone in un certo senso trasversalmente rispetto al primo (in un’ideale piano cartesiano del cultural engagement).

Pensando a Lost mi viene in mente, sul lato della spreadabilty il diffondersi delle registrazioni attraverso i network peer to peer (ma anche nel passaggio di mano in mano dei cd contenenti le puntate delle diverse stagioni) e su quello della drillabity l’esempio di Lostpedia (fra gli oltre 6,884 articoli presenti guardate in particolare questa timeline delle 6 stagioni).

2. Continuity vs. Multiplicity

La continuity rappresenta il principio di coerenza e plausibilità all’interno di un contenuto o di una serie di contenuti appartenenti ad uno stesso universo di riferimento. Pensando ai fumetti, gli universi dei supereroi della DC e della Marvel rappresentano perfettamente questo principio. Ma Jenkins nota anche una recente tendenza a ciò che lui chiama multiplicity. Sempre restando nel campo dei fumetti, si pensi ad esempio al caso di Ultimate Spider-Man, Spider-Man India (che sposta l’ambientazione dai grattaceli di New York alle strade di Mumbai) o Spider-Man Loves Mary Jane (che sviluppa la storia d’amore strizzando l’occhio al pubblico femminile). La multiplicity si sposa bene con i contributi generati dagli utenti che in qualche modo possono essere resi liberi di entrare, più coerentemente e con meno vincoli, a far parte di queste forme di narrazione trans-mediale.

In riferimento a Lost è abbastanza ovvio pensare al principio forte di coerenza interna che caratterizza la personalità dei vari personaggi e gli intrecci delle loro relazioni tanto sull’isola quanto nei numerosi flash back e flash forward. Nell’ultima stagione abbiamo tuttavia anche visto al lavoro il principio della multiplicity laddove i racconti dell’isola si sono alternati a quelli della vita quotidiana dei personaggi (le versioni alternative dei naufraghi che si vedono nei così detti flash-sideways che caratterizzano la sesta stagione).

3. Immersion vs. Extractability

Jack Action Figure

Il principio dell’immersion guida lo spettatore all’esplorazione del mondo della fiction. Non c’è bisogno di pensare a giochi come World of Warcraft per comprendere un principio non nuovo e proprio di tutte le realtà finzionali a partire dal romanzo. Il lettore/spettatore entra in un altro mondo. Al tempo stesso capita sempre più di frequente che elementi di questi mondi creati dalla narrazione escano entrando a far parte del mondo degli spettatori. Spesso sono gli stessi fan che contribuiscono attivamente a questo processo disseminando il proprio mondo di elementi tratti dagli universi finzionali che amano. Si pensi, ad esempio, a tutti quei negozi dove si possono acquistare costumi ed elementi scenografici per il cosplay o le action figures dei personaggi.

Anche Lost come tutte le narrazioni tende a portare lo spettatore all’interno del suo mondo. Al tempo stesso non mancano esempi di extractability come queste action figures dei personaggi principali della serie.

4. Worldbuilding

Una volta, come racconta uno sceneggiatore di Hollywood citato in Convergence Culture, “si sceglieva una storia perché senza una buona storia non si poteva fare un film. In seguito, quando hanno preso piede i sequel, si è iniziato a cercare un buon personaggio che supportasse molteplici storie. Oggi l’attenzione è sulla scelta di un mondo che possa supportare molteplici personaggi e storie attraverso diversi media”. Anche il principio del worldbuilding non è una novità recente. Jenkins fa notare che si tratta di un principio molto diffuso nella letteratura fantascientifica. Un altro esempio può essere rintracciato nello sviluppo che l’autore del Mago di Oz ha impresso ai personaggi e alle location della novella negli oltre venti volumi che costituiscono in realtà  The Wizard of Oz. La tensione al worldbuilding, al pari dell’immersion e della extractability, rappresenta una modalità attraverso la quali gli spettatori si relazionano con il prodotto mediale considerandolo come uno spazio che può talvolta entrare in relazione con lo spazio della vita quotidiana. A questo proposito Jenkins cita l’esempio dei poster realizzati dai fan che pubblicizzano viaggi verso località esistenti solo negli spazi finzionali e quello degli adesivi applicati sulle panchine dei parchi per promuovere il film District 9.

Rispetto a Lost… non saprei… idee? (forse c’è qualcosa del genere in relazione a Flash Forward)?

5. Seriality

Il principio della serialità, anche esso non nuovo, può essere compreso attraverso la distinzione fra storia e la trama. La storia si riferisce alla nostra costruzione mentale di ciò che accade che può formarsi solo dopo aver assorbito tutti i pezzetti di informazione disponibili?. La trama, invece, prende questi pezzetti di informazione e li organizza in un percorso che definisce la sequenza con la quale questi pezzi di informazione saranno resi disponibili agli spettatori. Il serial crea invece pezzi di storie avvincenti e sensate e disperde la storia complessiva sui diversi episodi facendo in modo che il precedente rimandi al successivo. Il racconto transmediale è una serialità portata alle estreme conseguenze dove i pezzi di storia non sono dispersi su diversi segmenti sullo stesso medium, quanto piuttosto su media diversi.

Un buon esempio di questo sono i diversi alternate reality game (ARG) creati dagli autori di LOST per mantenere alto il livello di coinvolgimento degli spettatori nelle pause fra le diverse stagioni: The Lost Experience, Find 815 e Dharma Initiative Recruiting Project.

6. Subjectivity

Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista ed il principio di subjectivity sfrutta questa caratteristica affidando, nella forma ad esempio del diario, ad un personaggio secondario la responsabilità di un racconto parallelo. Il cambiamento di punto di vista può aiutare lo sviluppo della storia e la comprensione più approfondita del personaggio autore del racconto. Questo principio si sposa perfettamente con il racconto trans-mediale che può affidare il racconto dalla soggettiva di ciascun personaggio ad un medium diverso (come il caso dei fumetti della serie Heroes o i canali Twitter dei personaggi di The Big Bang Theory)

Sito della della Oceanic Airlines (poi utilizzato per l’ARG Find 815) è uno splendido esempio di utilizzo della soggettività (in questo caso la compagnia aerea stessa) per lo sviluppo della narrazione trans-mediale.

7. Performance

A partire dalla distinzione fra cultural attractors (elementi condivisi intorno ai quali si crea la comunità) e cultural activators (che danno alla comunità qualcosa da fare). Per esemplificare i cultural activators Jenkins fa riferimento alla mappa che apparve brevemente in alcune puntate della seconda stagione di Lost attivando la creatività dei fan che hanno provato a ridisegnare questa mappa alla ricerca di indizi sullo sviluppo della storia. Alle volte questi attivatori culturali sono posizionati strategicamente dagli autori, ma anche in mancanza di una strategia esplicita i fan tenderanno comunque ad interpretare performativamente alcuni aspetti della storia (guardate ad esempio questi opening credits alternativi di Lost generati dai fan). Per questo motivo è da tempo attiva una riflessione su come promuovere (ma a volte anche come bloccare) questa attività creativa da parte dei fan.

P.S. Preciso di non essere particolarmente esperto di Lost. Suppongo quindi che, oltre agli esempi che ho proposto, possano essercene altri ed anche migliori di quelli da me scelti. Se avete proposte o suggerimenti non esitate a lasciare un commento.

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Facebook fra privacy e "trasparenza radicale"

Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

What's next #S02E00: Alice in the box

Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.Episodio pilota della nuova serie di What’s next dedicato alla teoria delle stringhe.

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.
Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.
Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.
Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.
Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.
[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]
[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.

Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.

Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.

Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.

Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.

[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]

[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]

[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]

Ci sono spazi che non sono luoghi e luoghi che non hanno tempo.

Posti stregati dall’incantesimo dell’eterno presente. Quando li attraversi, dopo pochi passi, hai subito la strana sensazione di essere il primo a farlo. Se riesci a non fare troppo caso a quelle scritte sui muri – a cui presto non presterai comunque più attenzione – puoi persino arrivare a pensare che quel luogo sia lì solo per te. Per te e per le persone che condividono il tuo stesso percorso nel medesimo tempo. Dopo forse scompare. O forse no. Poco importa. Qualunque cosa accada dopo, tu e la tua rete sociale comportamentale – quella dove gli Amici non li hai scelti e/o aggiunti come nella rubrica del telefono, ma piuttosto trovati un po’ per caso mentre condividevate un’esperienza – sarete fuori da lì.

Sembra che accada prima di quanto non accada in realtà. Questi luoghi alterano le percezioni. Poi ognuno prende la sua strada. Rimane l’esperienza condivisa, qualche foto. Nel tempo affiorano dubbi sulla sorte di quei posacenere ricavati dai barattoloni di tonno. A volte viene voglia di tornare indietro a controllare che tutto sia come prima, ma il timore che non sia così fa desistere.

Strano. Mentre eri lì, vittima dell’incantesimo, non ti era mai interessato molto né dei posacenere, né di tutto ciò che li conteneva.

Ma gli incantesimi generano a volte illusioni imperfette. Di quelle che consentono talvolta di vedere il codice che genera la matrice. Di percepire il tempo dello spazio. E tu vuoi la pillola rossa o quella blu? La rossa, se vuoi, la trovi a http://bit.ly/9F4AsC.

[extended version dell’articolo che potete leggere sulla prossima edizione della rivista Open House]

[Photo originally uploaded on September 7, 2007 by paul goyette]

[Disclamier: questo è solo un pilot. Non è detto che venga veramente girata o mandata mai in onda l’intera serie]