What’s next #S02E01: quando finisce un amore… ai tempi di Facebook

Che ci piaccia o no certe relazioni sono destinate a finire. Non è mai facile gestire il passaggio, ma con Facebook la cosa può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Ecco una breve guida a cosa fare e non fare… Che ci piaccia o no certe relazioni sono destinate a finire. Non è mai facile gestire il passaggio, ma con Facebook la cosa può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Ecco una breve guida a cosa fare e non fare…

E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]
E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]
E tutti vissero felici e contenti.
Capita. Non solo nelle favole. Trovare l’anima gemella, passare la vita insieme.
Purtroppo non sempre. Alcune relazioni finiscono.
Non è mai facile ma Facebook può rendere, se possibile, questa fase ancora più dura. Rimanere “amici” con il/la proprio ex? E gli amici in comune? Ma soprattutto chi è quell’individuo che continua a commentare i contenuti e comparire nelle foto con il/la tua ex?
Ogni relazione è diversa ma ecco tre semplici suggerimenti che potrebbero tornare utili:
1. Non cancellare l’amicizia e lasciare che eventualmente sia l’altro a farlo (non avete idea di quanto alcune persone possano vivere male quello che a voi sembra un semplice gesto di buon senso);

[come farlo?]
2. Se leggere della sua vita senza di voi vi infastidisce, usate il bottoncino nascondi e non vedrete più comparire i suoi aggiornamenti (sta a voi poi avere la forza di non andare a visitare il suo profilo). In ogni caso continuerete a vedere i commenti sui contenuti degli amici in comune. L’unico rimedio per questo è rimuovere tutti gli amici in comune o usare la funzione blocca;
How to Hide
[come farlo? Hide, Block]
3. Create una lista apposita dove mettere il/la vostra ex: in questo modo potrete decidere strategicamente cosa mostrare o nascondere dei vostri aggiornamenti ed apparire selettivamente offline in chat.
Facebook Friend Lists
[come farlo?]
E voi? Qual è la vostra esperienza? Avete strategie di sopravvivenza da condividere?
[extended version dell’articolo che potete leggere sul prossimo numero della rivista Open House]
[Photo originally uploaded on November 28, 2005 by signalstation]

Facebook fra privacy e "trasparenza radicale"

Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.Riflessioni in ordine sparso su Facebook e la linea di continuità fra privacy e trasparenza radicale.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).

Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.

Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…

based on how lots of people are sharing information today.

For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.

Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.

Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.

Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.

Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.

L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.

Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.

Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.

Realtà digitali #9: Vademecum per i politici che usano internet

Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web. Nelle prime elezioni del dopo Obama e del dopo boom di Facebook in Italia anche la politica italiana saggia le potenzialità del web.

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.
Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.
La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.
Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.
Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.
“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.
La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]
[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Nel corso degli ultimi mesi si è largamente diffusa in Italia la convinzione che internet sia un mezzo di cui tenere conto per chi si occupa di politica.

Il fatto che questa consapevolezza si sia estesa è senz’altro positivo ma è altrettanto opportuno che chi desideri usare la rete per promuovere le proprie idee, lo faccia con cognizione o abbia l’umiltà di seguire i consigli di chi è più esperto di lui in questo territorio nuovo. Senza questa consapevolezza anche il miglior politico rischia, infatti, di promuovere goffe iniziative destinate nel migliore dei casi all’oblio post-elettorale. Il fiuto in rete non basta. Bisogna avere un’esperienza diretta per capirne le logiche.

La prima cosa da tenere presente è che il successo di un’iniziativa in rete non si misura solo in termini di visite ma anche e soprattutto in termini di partecipazione. Le metriche cui siamo stati abituati, dalla tiratura dei giornali all’auditel, sono figlie di un tempo in cui questa partecipazione non era misurabile. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche che Facebook mette a disposizione per le sue Pages (se vi siete fatti invece un profilo impersonale per il partito su Facebook avete sbagliato tutto) per comprendere il salto cui siamo di fronte. Oltre alle prevedibili statistiche demografiche sui supporter, Facebook offre, infatti, anche un indice di qualità settimanale basato sul livello di interazione fatto registrare dai visitatori.

Stimolare la partecipazione richiede tempo e cura. Spendere molto denaro per promuovere la propria iniziativa senza dedicare altrettante se non maggiori risorse ai contenuti e alla comunità è una strategia suicida.

Nelle iniziative di rete trasparenza e apertura sono essenziali. Guardate il sito Recovery.gov o il nuovo progetto Data.gov varato di recente dal governo americano nell’ambito del piano Open Government. Il primo sito fa il rendiconto di quanto e come sia stato speso il denaro del piano di stimolo dell’economia varato dal governo americano per fronteggiare la crisi. Il secondo rende disponibile in formato standard e facilmente riutilizzabile i dati di molte agenzie federali.

“Don’t be evil”, come dice il motto aziendale di Google. Se la vostra iniziativa è basata su un presupposto non etico è meglio che lasciate perdere la rete. Alla fine qualcuno sfrutterà questo canale che voi stessi avete aperto per rinfacciarvelo. Potrete zittire il contestatore negli spazi che controllate, ma nulla potrà impedirgli di scrivere ciò che pensa altrove.

La libera iniziativa dei cittadini in rete farà comunque il suo corso che voi lo vogliate o no. Se lascerete che questo avvenga in qualche remoto angolo della rete e magari senza che voi ne siate consapevoli, commetterete un errore potenzialmente fatale. É proprio intervenendo in questi spazi che potrete dimostrare di essere in ascolto e pronti ad accettare la sfida del dialogo.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 16 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 26 Maggio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 9 Giugno]

[Photo originally uploaded on May 15, 2009 by The Official White House Photostream]

Realtà digitali #3: La realtà dei nativi ed il divario generazionale in Italia

Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.Il divario generazionale in Italia come nel mondo passa anche per il ruolo di Interet. Si può decidere di lavorare per sanarlo o, come ha fatto Francesco Alberoni, cavalcarlo per rendere il solco più vasto.

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.
Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.
Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.
Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.
La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.
Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.
Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]
[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

L’ottantenne Francesco Alberoni, nella sua tradizionale rubrica pubblicata ogni lunedì mattina su Il Corriere della Sera, ha lanciato la provocatoria proposta di limitare l’uso che i giovani italiani fanno di YouTube, delle chat, delle discoteche, di Internet e dei cellulari. Una moratoria di due mesi all’anno che consentirebbe ai giovani, nelle argomentazioni di Alberoni, di “ricominciare a parlare, di riprendere contatto con le altre generazioni, con i giornali e i libri”. In altri termini di riprendere contatto con la realtà.

Si tratta di argomentazioni largamente condivise fra i molti in Italia che, per ragioni anagrafiche o culturali, possano essere ascritti alla categoria che Marc Prensky ha definito “migranti del digitale”. Cultura, pratiche sociali, mentalità e modo di informarsi di questi migranti sono profondamente diverse da quelle di chi è nato e cresciuto nei territori del digitale. In particolare il rapporto con i media è diverso. Per i “nativi del digitale” Internet ed i cellulari sono parte della vita quotidiana non meno di quanto lo siano i libri e i quotidiani per i migranti.

Sono strumenti che fanno parte integrante della loro realtà e non qualcosa che la nega.

Certo è una realtà diversa da quella dei migranti. Una realtà che a fatica può essere compresa dall’esterno. Come gli antropologi che si accostano ad una tribù di indigeni, nativi e migranti del digitale dovrebbero evitare di compiere l’errore banale di interpretare i comportamenti che osservano attraverso i propri valori culturali di riferimento. Il rischio è quello di pensare che la propria realtà sia la Realtà e che gli altri non possano fare altro comprenderne le ragioni ed adattarvisi.

La posta in gioco è più alta di quanto non si possa immaginare. In un Paese caratterizzato da scarse dinamiche di ricambio generazionale e tendente all’invecchiamento, quasi la metà (46,5%) della popolazione sotto i 30 anni è su Facebook. Mentre sui quotidiani si esprime sconcerto per le pratiche dei giovani, in rete si ridicolizzano quelle degli adulti. Ai tanti autorevoli commentatori di quotidiani e TV fanno da contraltare siti come myparentsjoinedfacebook.com dove si prendono in giro i comportamenti inappropriati che gli adulti adottano su Facebook. Circolando all’interno di cerchie che condividono la stessa cultura, questi opposti estremismi tendono progressivamente ad allontanarsi ed ignorarsi reciprocamente.

Il divario generazionale non è certo una novità di questi anni. È cambiato però lo scenario mediale che con la rete rende visibile anche la prospettiva dei giovani e con i siti di social network offre loro una piattaforma dove conversare rafforzando la propria identità generazionale ed i propri valori.

Se vogliamo evitare che il divario si acuisca dobbiamo compiere uno sforzo per comprendere l’altro e lavorare insieme per una prospettiva di multi-culturalità digitale.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 3 Marzo. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 17 Marzo]

[Photo originally uploaded on September 25, 2005 by anyjazz65]

Realtà digitali #2: Ferrovie, saggezza delle folle e controllo della rete

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook all’approvazione dell’emendamento “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.
Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.
Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?
Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.
Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]
[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

“Chiudereste una ferrovia per un graffito sconveniente in una stazione?” In questa domanda retorica è racchiusa la reazione ufficiale di Facebook alla notizia che l’Italia sta per approvare una legge che conferisce al Ministro degli Interni il potere di ordinare l’oscuramento di un sito che ospiti contenuti che istighino a delinquere, a disobbedire alle leggi o apologia di reato. Ma cosa c’entrano i graffiti con un gruppo che usa Internet per inneggiare a Bernardo Provenzano e Salvatore Riina? Apparentemente nulla. Per comprendere il paragone è infatti necessaria una conoscenza di base sui siti che ospitano contenuti generati dagli utenti come Facebook, YouTube o Wikipedia. Prendiamo Facebook. Se la proposta di legge fosse approvata, il Ministro degli Interni potrebbe ordinare ai provider di rendere inaccessibile dall’Italia l’intero sito di Facebook (la ferrovia) con lo scopo di oscurare uno specifico contenuto (il graffito) creato o caricato da uno dei 175 milioni utenti registrati. Ora la soluzione può apparire eccessiva e non priva di controindicazioni – si pensi ad esempio al contraccolpo per chi ha investito nella pubblicità su Facebook – ma se non esistesse altro modo di far rimuovere quel contenuto essa avrebbe il merito di risolvere alla radice una questione di indiscutibile gravità.

Mi chiedo tuttavia se prima di scegliere un percorso lungo che ci conduca con certezza alla nostra meta non valga la pena provare ad esplorare eventuali scorciatoie che comportano minimo sforzo ed ottime opportunità di successo. I siti come Facebook, YouTube o Wikipedia si sono infatti da tempo posti il problema di come controllare i contenuti che essi veicolano.

Non si tratta di una questione di semplice soluzione. L’approccio radicale suggerirebbe un’approvazione prima della pubblicazione da parte dei gestori del sito. Questa soluzione, oltre a sollevare dubbi sul rispetto della libertà d’espressione, è di fatto impraticabile perchè richiederebbe un enorme sforzo in termini di risorse umane. Quante persone servirebbero per controllare manualmente, ad esempio, i 5 milioni di video pubblicati ogni mese su Facebook?

Le strategie adottate sono due: il controllo automatico e l’auto-controllo. YouTube, ad esempio, è in grado di identificare automaticamente la presenza in un video di una colonna sonora protetta da copyright e rimuoverla in caso di violazione. Facebook consente ad ogni utente di segnalare ai gestori un contenuto offensivo. Wikipedia si spinge oltre consentendo agli utenti di intervenire direttamente modificando un lemma quando contiene inesattezze.

Perché dunque fermare la ferrovia quando basta cancellare (o far cancellare) il graffito? Non dovrebbe forse l’oscuramento essere solo l’estrema conseguenza nei confronti di un gestore che si rifiuti di rimuovere un contenuto segnalato? Non sarebbe meglio educare all’auto-controllo che promuovere la censura?

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Martedì 17 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Martedì 3 Marzo]

[Photo originally uploaded on April 21, 2008 by Steve Webel]

Realtà digitali #1: Le conversazioni da bar dei pubblici connessi

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò traffico i siti dei giornali online più famosi.

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.
Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.
Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.
Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.
[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]
[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.

Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.

Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.

Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]

[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]

Quando gli storici del futuro studieranno l’Italia, non avranno bisogno di sofisticate tecniche di analisi per accorgersi che nel corso del 2008 qualcosa è cambiato. L’anno appena concluso verrà infatti ricordato come quello della svolta. L’anno nel quale un sito Internet dove i contenuti sono creati dagli stessi utenti che lo frequentano superò per traffico i siti dei giornali online più famosi. Se nella storia dei media il 2008 sarà ricordato come l’anno di Facebook, saranno solo gli anni a venire che potranno dirci quale sarà l’impatto sulla nostra società della diffusione di strumenti che consentono di mantenere e rendere visibili le proprie relazioni sociali come mai prima d’ora era stato possibile fare.

Certo i siti di social network e Facebook in particolare, minano alla radice le più frequenti critiche avanzate dai detrattori della rete. Gli scettici ci hanno messo in guardia dall’isolamento ed invece siamo tutti più connessi. Hanno consigliato di non cedere al fascino delle identità fittizie e tutti usano un sistema che richiede di entrare con il proprio nome e cognome. Come avvenuto con il telefono, i rapporti mantenuti attraverso Internet non stanno sostituendo gli incontri di persona ed al contrario si affiancano e si intrecciano con essi. Gli studi più recenti mostrano che i siti di social network sono usati per mantenere i rapporti sociali in essere più che per crearne di nuovi. Ciò nonostante molti genitori si preoccupano per il tempo che i figli dedicano a questi siti ed i media dedicano grande attenzione ai casi di devianza rinforzando ulteriormente questi timori.

Non che in questi spazi non avvengano comportamenti riprovevoli o che essi siano sicuri per definizione. Come in tutti gli spazi pubblici si possono incontrare malintenzionati, fare esperienze dolorose ed ascoltare opinioni lontane dal politically correct. Sono sicuro che se registrassimo le conversazioni degli anziani che giocano a carte in un bar, ne trarremmo di che preoccuparci per il futuro di quella generazione e della società in generale. La differenza è che le conversazioni nei siti di social network sono costantemente esposte al pubblico. Un pubblico diverso da quello passivo tipico dei media di massa. Un pubblico connesso che commenta, diffonde, remixa e crea i suoi stessi contenuti. Un pubblico che definisce uno spazio dove le conversazioni “da bar” assumono la permanenza propria della forma scritta, la replicabilità del copia/incolla, la ricercabilità cui ci ha abituato Google e possono raggiungere un numero di destinatari che prima del web avrebbero comportato costi che in pochi potevano permettersi.

Le opportunità di cambiamento che abbiamo di fronte sono dunque straordinarie ed è comprensibile che destino preoccupazione. Tenere i nostri figli lontani da Internet non li aiuterà tuttavia a familiarizzare con le logiche della società nella quale si troveranno a vivere.

[potete leggere questo articolo anche a pag. 12 de “Il Corriere Adriatico” di Mercoledì 4 Febbraio. Il prossimo appuntamento con “Realtà digitali” è per Mercoledì 18 Febbraio]

[Photo originally uploaded on October 23, 2005 by Goldemberg Fonseca ]

What's next special issue: "Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics"

Ultimo numero speciale di What’s Next dedicato a presentare e discutere “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” l’ultimo lavoro di danah boyd.Ultimo numero speciale di What’s Next dedicato a presentare e discutere “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” l’ultimo lavoro di danah boyd.Ultimo numero speciale di What’s Next dedicato a presentare e discutere “Taken Out of Context: American Teen Sociality in Networked Publics” l’ultimo lavoro di danah boyd.

Come promesso in dicembre, danah boyd ha pubblicato la sua tesi di dottorato sul suo blog.
Si tratta, come noto, di uno studio etnografico sull’uso che i teenager americani fanno dei siti di social network come MySpace e Facebook. Il documento si compone di poco più di 300 pagine ed è articolato in sette capitoli che definiscono in modo chiaro la struttura del lavoro descritta nel primo capitolo.
Oltre a presentare la struttura del lavoro, questo capitolo introduce anche i principali riferimenti teorici, definisce cosa si intende per giovani nel contesto del lavoro e cosa si intende per pubblici di rete (networked publics).
Dal punto di vista del rapporto fra evoluzione della società e delle tecnologie il lavoro si ispira ad un approccio di tipo Social Construction of Technology. Questo approccio enumera una serie di principi (Relevant social groups, Problems and Conflicts, Interpretive Flexibility, Design Flexibility, Closure adn Stabilization) che ruotano intorno all’idea che il rapporto fra società e tecnologia sia di tipo co-evolutivo ed al conseguente netto rifiuto di ogni prospettiva di determinismo tecnologico. Si tratta di approccio in qualche modo ecologico allo studio del rapporto società/tecnologie che consente di dare conto
Non c’è una vera e propria definizione della categoria di giovani e non c’è una chiara coorte di età individuata teoricamente (anche se dal punto di vista operativo l’autore ha scelto di concentrarsi sulla fascia 13-18 anni). La categoria dei giovani non è definita sulla base dello sviluppo biologico ma piuttosto come costruzione sociale.
Il cuore del lavoro consiste nell’analisi approfondita di tre set di relazioni, nella definizione di pubblici di rete, delle tecniche proprietà che caratterizzano questo spazio e delle dinamiche sociali che emergono. Questa parte contiene alcune interessanti novità rispetto a quanto era stato possibile leggere fino a questo momento negli articoli e sul blog dell’autore.
Neworked Publics è definito in modo duplice a partire dalla generica ed in un certo senso auto-referenziale definizione di “publics that are restructured by network technologies”.
Networked Publics è al tempo stesso un luogo ed un gruppo di individui.
1) è lo spazio costruito dalle tecnologie di rete (“MySpace is like a park”);
2) ed è la comunità immaginata che emerge come risultato delle intersezioni fra le persone, le tecnologie e le pratiche.
La definizione è giocata sull’ambiguità del termine pubblico che può essere usato per definire il tipo di accesso ad uno spazio (public access) o un gruppo di persone che sono testimoni di un evento (public as audience).
[Qui sarebbe interessante capire perché non siano state distinte le due definizioni usando ad esempio “networked space” per la prima]
Lo spazio pubblico di rete è caratterizzato da quattro proprietà tecniche (descritte nel paragrafo 1.5.1.) che non sono nuove nel panorama dei media ma interagiscono in modo inedito.
Le quattro proprietà sono:

  1. persistence
  2. searchability
  3. replicability
  4. scalability

Alcune sono già note e ne ho abbondantemente parlato nelle edizioni precedenti di What’s Next.
A differenza di quanto scritto fino ad ora, l’autore ha sostituito le invidible audiences con la scalability. La scalabilità è definita come la possibilità ma non la garanzia di una enorme visibilità per i contenuti esposti ai pubblici di rete. Questa proprietà consente all’autore di introdurre un riferimento ai pubblici di nicchia ed alla lunga coda. Interessante in questo contesto la precisazione che riguarda la natura dei contenuti che scalano. Contrariamente a quanto si era sperato i contenuti che raggiungono la massima visibilità sono spesso gli stessi che Habermas critica nei suoi lavori in relazione alle audience della comunicazione broadcast.
L’intrecciarsi di queste quattro proprietà tecniche danno origine ad un set di tre dinamiche:

  1. invisible audiences;
  2. collapsed contexts (Meyrowitz);
  3. blurring of public and private.


Il capitolo due descrive invece nel dettaglio e nel contesto degli studi precedenti l’approccio etnografico adottato.
Interessante in questo contesto la critica a Sherry Turkle considerata, forse non a torto, come l’iniziatrice di un filone di pensiero che mette in guardia verso il rischio della frammentazione dell’identità collegato alla comunicazione mediata dal computer. Le conclusioni di danah boyd puntano invece in una direzione sottolineando che le relazioni sociali che si intrattengono online sono il più delle volte una naturale prosecuzione di quelle esistenti fuori dalla rete.
I dati analizzati sono di due tipi: interviste a singoli o coppie (in totale coinvolti 94 teeanagers di 10 Stati) ed informazioni contenute nei profili (layout, foto, descrizioni di sè, etc.) e sono analizzati secondo tre direttrici (set di relazioni) ciascuna approfondite in un capitolo dedicato basato su riferimenti teorici diversi:

  1. self and identity [chapter 4] Goffman impression management;
  2. peer sociality [chapter 5] – Eckert social categories 1989 e Milner status rituals 2004;
  3. parents and adults (power relations) [chapter 6] – Valentine 2004 children access to public spaces.

L’ultimo capitolo è dedicato alle conclusioni personali dell’autore e si articola su tre paragrafi: Lessons from the Everyday Lives of Teens, The Significance of Publics e The Future of Networked Publics. In questi tre paragrafi sono riprese e sviluppate brevemente alcune delle conclusioni che permeano tutto il lavoro e vengono forniti alcuni spunti nuovi.
In Everyday Lives of Teen l’autore mette in luce come le pratiche di costruzione dell’identità e di relazioni fra pari che hanno luogo nei siti di social network non sono di certo una novità e si innestano su dinamiche pre-esistenti. Al tempo stesso lo spazio di rete con le sue proprietà e dinamiche rende esplicite e visibili alcune proprietà delle relazione che erano prima esplicite. Questo innesca “drammi sociali” che pur essendo tipici di quella fascia d’età assumono a volte dei contorni ancora più spigolosi.
Non esiste una particolare attrazione dei giovani verso i social media, è invece il fatto che in questi luoghi si possano incontrare i propri amici che li rendono interessanti. Quando richiesto la maggior parte degli intervistati dichiara di preferire le relazioni di persona a quelle mediate e considerano in genere questa forma di comunicazione come una alternativa da praticare quando gli incontri di persona non sono possibili.
I giovani non sembrano avere una innata capacità che gli consenta di comprendere come navigare i social media e le dinamiche che ne risultano ma stanno imparando a farlo mentre imparano, al tempo stesso, come muoversi nella vista sociale in senso lato. Questo differenzia i giovani dagli adulti che devono invece re-imparare come comportarsi negli spazi di rete.
L’attività svolta dentro i siti di social network è dunque in senso lato formativa a dispetto di quanto invece sia considerata una perdita di tempo da parte dei genitori e degli adulti in generale. Il desiderio dei giovani di sperimentare la socialità fra pari in assenza degli adulti (bedroom culture) è spesso causa di conflitto intergenerazionale. Talvolta questo conflitto sfocia nella demonizzazione tout court di questi spazi spesso descritti dai media come pericolosi. Il ruolo degli adulti sarebbe invece quello di affrontare questi temi ed aiutare i giovani a prendere decisioni che consentano loro di usare questi spazi in chiave positiva.
Nel paragrafo The Significance of Publics, l’autore riprende il tema della partecipazione dei teenagers agli spazi pubblici. Secondo danah boyd queste possibilità di partecipazione sono fortemente ristrette dagli adulti. Gli spazi pubblici (di rete o meno), intesi come contesti dove i giovani possono incontrarsi fra loro ma anche incontrare altri adulti, svolgono tuttavia un ruolo importante come completamento alla socializzazione fra pari. Escludere i giovani da questi spazi non è dunque una buona strategia perché limita gli strumenti che questi ragazzi avranno a disposizione nella transizione al mondo degli adulti e può risultare in una generazione isolata dalla vita politica e dall’impegno sociale.
Infine nel paragrafo intitolato The Future of Networked Publics viene introdotta la tematica del mobile.  L’accesso al pubblico mediato di rete attraverso dispositivi mobili come i cellulari di nuova generazione (reso possibili dalle reti senza fili e le connettività dati a tariffa flat) introduce una nuova proprietà tecnica che danah boyd chiama (dis)locability. Si tratta della proprietà che rende le conversazioni simultaneamente indipendenti dalla posizione fisica ma più profondamente connesse ad essa attraverso le tecnologie locative come il GPS.
Venendo alle mie considerazioni personali devo ammettere che le aspettative verso questo lavoro non sono andate deluse. Si tratta di uno studio che ha dietro una struttura solida e presenta un frame work interpretativo delle trasformazioni dello spazio pubblico che potrà, come suggerisce l’autore, essere utilizzato anche quando interverranno inevitabilmente altre modificazioni legate o meno all’avvento di nuove tecnologie.
Al tempo stesso devo ammettere che per chi ha familiarità con il pensiero di danah boyd questo lavoro non presenta grandi novità. L’impostazione iniziale a difesa delle libertà dei teenager nei confronti del mondo degli adulti è sempre fortemente presente e pervade tutto il lavoro. La definizione di networked publics lascia secondo me aperta una contraddizione (fra pubblico come spazio e come audience) che poteva essere facilmente sanata utilizzando due termini diversi per descrivere due cose che sono oggettivamente diverse. Mi piace invece la distinzione fra proprietà tecniche e dinamiche perché offre una collocazione più consona all’idea del pubblico invisibile. Sembra tuttavia che i nuovi elementi introdotti (scalability fra le proprietà , collapsed context e blurring public/private fra le dinamiche) non sono sempre approfonditi con lo stesso dettaglio degli elementi che già l’autore aveva introdotto da tempo.
Per il resto è un lavoro che vale sicuramente la lettura e che non potrà che migliorare grazie all’enorme feedback che di certo riceverà.

Come promesso in dicembre, danah boyd ha pubblicato la sua tesi di dottorato sul suo blog.

Si tratta, come noto, di uno studio etnografico sull’uso che i teenager americani fanno dei siti di social network come MySpace e Facebook. Il documento si compone di poco più di 300 pagine ed è articolato in sette capitoli che definiscono in modo chiaro la struttura del lavoro descritta nel primo capitolo.

Oltre a presentare la struttura del lavoro, questo capitolo introduce anche i principali riferimenti teorici, definisce cosa si intende per giovani nel contesto del lavoro e cosa si intende per pubblici di rete (networked publics).

Dal punto di vista del rapporto fra evoluzione della società e delle tecnologie il lavoro si ispira ad un approccio di tipo Social Construction of Technology. Questo approccio enumera una serie di principi (Relevant social groups, Problems and Conflicts, Interpretive Flexibility, Design Flexibility, Closure adn Stabilization) che ruotano intorno all’idea che il rapporto fra società e tecnologia sia di tipo co-evolutivo ed al conseguente netto rifiuto di ogni prospettiva di determinismo tecnologico. Si tratta di approccio in qualche modo ecologico allo studio del rapporto società/tecnologie che consente di dare conto

Non c’è una vera e propria definizione della categoria di giovani e non c’è una chiara coorte di età individuata teoricamente (anche se dal punto di vista operativo l’autore ha scelto di concentrarsi sulla fascia 13-18 anni). La categoria dei giovani non è definita sulla base dello sviluppo biologico ma piuttosto come costruzione sociale.

Il cuore del lavoro consiste nell’analisi approfondita di tre set di relazioni, nella definizione di pubblici di rete, delle tecniche proprietà che caratterizzano questo spazio e delle dinamiche sociali che emergono. Questa parte contiene alcune interessanti novità rispetto a quanto era stato possibile leggere fino a questo momento negli articoli e sul blog dell’autore.

Neworked Publics è definito in modo duplice a partire dalla generica ed in un certo senso auto-referenziale definizione di “publics that are restructured by network technologies”.

Networked Publics è al tempo stesso un luogo ed un gruppo di individui.

1) è lo spazio costruito dalle tecnologie di rete (“MySpace is like a park”);
2) ed è la comunità immaginata che emerge come risultato delle intersezioni fra le persone, le tecnologie e le pratiche.

La definizione è giocata sull’ambiguità del termine pubblico che può essere usato per definire il tipo di accesso ad uno spazio (public access) o un gruppo di persone che sono testimoni di un evento (public as audience).

[Qui sarebbe interessante capire perché non siano state distinte le due definizioni usando ad esempio “networked space” per la prima]

Lo spazio pubblico di rete è caratterizzato da quattro proprietà tecniche (descritte nel paragrafo 1.5.1.) che non sono nuove nel panorama dei media ma interagiscono in modo inedito.

Le quattro proprietà sono:

  1. persistence
  2. searchability
  3. replicability
  4. scalability

Alcune sono già note e ne ho abbondantemente parlato nelle edizioni precedenti di What’s Next.

A differenza di quanto scritto fino ad ora, l’autore ha sostituito le invidible audiences con la scalability. La scalabilità è definita come la possibilità ma non la garanzia di una enorme visibilità per i contenuti esposti ai pubblici di rete. Questa proprietà consente all’autore di introdurre un riferimento ai pubblici di nicchia ed alla lunga coda. Interessante in questo contesto la precisazione che riguarda la natura dei contenuti che scalano. Contrariamente a quanto si era sperato i contenuti che raggiungono la massima visibilità sono spesso gli stessi che Habermas critica nei suoi lavori in relazione alle audience della comunicazione broadcast.

L’intrecciarsi di queste quattro proprietà tecniche danno origine ad un set di tre dinamiche:

  1. invisible audiences;
  2. collapsed contexts (Meyrowitz);
  3. blurring of public and private.

Il capitolo due descrive invece nel dettaglio e nel contesto degli studi precedenti l’approccio etnografico adottato.

Interessante in questo contesto la critica a Sherry Turkle considerata, forse non a torto, come l’iniziatrice di un filone di pensiero che mette in guardia verso il rischio della frammentazione dell’identità collegato alla comunicazione mediata dal computer. Le conclusioni di danah boyd puntano invece in una direzione sottolineando che le relazioni sociali che si intrattengono online sono il più delle volte una naturale prosecuzione di quelle esistenti fuori dalla rete.

I dati analizzati sono di due tipi: interviste a singoli o coppie (in totale coinvolti 94 teeanagers di 10 Stati) ed informazioni contenute nei profili (layout, foto, descrizioni di sè, etc.) e sono analizzati secondo tre direttrici (set di relazioni) ciascuna approfondite in un capitolo dedicato basato su riferimenti teorici diversi:

  1. self and identity [chapter 4] Goffman impression management;
  2. peer sociality [chapter 5] – Eckert social categories 1989 e Milner status rituals 2004;
  3. parents and adults (power relations) [chapter 6] – Valentine 2004 children access to public spaces.

L’ultimo capitolo è dedicato alle conclusioni personali dell’autore e si articola su tre paragrafi: Lessons from the Everyday Lives of Teens, The Significance of Publics e The Future of Networked Publics. In questi tre paragrafi sono riprese e sviluppate brevemente alcune delle conclusioni che permeano tutto il lavoro e vengono forniti alcuni spunti nuovi.

In Everyday Lives of Teen l’autore mette in luce come le pratiche di costruzione dell’identità e di relazioni fra pari che hanno luogo nei siti di social network non sono di certo una novità e si innestano su dinamiche pre-esistenti. Al tempo stesso lo spazio di rete con le sue proprietà e dinamiche rende esplicite e visibili alcune proprietà delle relazione che erano prima esplicite. Questo innesca “drammi sociali” che pur essendo tipici di quella fascia d’età assumono a volte dei contorni ancora più spigolosi.

Non esiste una particolare attrazione dei giovani verso i social media, è invece il fatto che in questi luoghi si possano incontrare i propri amici che li rendono interessanti. Quando richiesto la maggior parte degli intervistati dichiara di preferire le relazioni di persona a quelle mediate e considerano in genere questa forma di comunicazione come una alternativa da praticare quando gli incontri di persona non sono possibili.

I giovani non sembrano avere una innata capacità che gli consenta di comprendere come navigare i social media e le dinamiche che ne risultano ma stanno imparando a farlo mentre imparano, al tempo stesso, come muoversi nella vista sociale in senso lato. Questo differenzia i giovani dagli adulti che devono invece re-imparare come comportarsi negli spazi di rete.

L’attività svolta dentro i siti di social network è dunque in senso lato formativa a dispetto di quanto invece sia considerata una perdita di tempo da parte dei genitori e degli adulti in generale. Il desiderio dei giovani di sperimentare la socialità fra pari in assenza degli adulti (bedroom culture) è spesso causa di conflitto intergenerazionale. Talvolta questo conflitto sfocia nella demonizzazione tout court di questi spazi spesso descritti dai media come pericolosi. Il ruolo degli adulti sarebbe invece quello di affrontare questi temi ed aiutare i giovani a prendere decisioni che consentano loro di usare questi spazi in chiave positiva.

Nel paragrafo The Significance of Publics, l’autore riprende il tema della partecipazione dei teenagers agli spazi pubblici. Secondo danah boyd queste possibilità di partecipazione sono fortemente ristrette dagli adulti. Gli spazi pubblici (di rete o meno), intesi come contesti dove i giovani possono incontrarsi fra loro ma anche incontrare altri adulti, svolgono tuttavia un ruolo importante come completamento alla socializzazione fra pari. Escludere i giovani da questi spazi non è dunque una buona strategia perché limita gli strumenti che questi ragazzi avranno a disposizione nella transizione al mondo degli adulti e può risultare in una generazione isolata dalla vita politica e dall’impegno sociale.

Infine nel paragrafo intitolato The Future of Networked Publics viene introdotta la tematica del mobile.  L’accesso al pubblico mediato di rete attraverso dispositivi mobili come i cellulari di nuova generazione (reso possibili dalle reti senza fili e le connettività dati a tariffa flat) introduce una nuova proprietà tecnica che danah boyd chiama (dis)locability. Si tratta della proprietà che rende le conversazioni simultaneamente indipendenti dalla posizione fisica ma più profondamente connesse ad essa attraverso le tecnologie locative come il GPS.

Venendo alle mie considerazioni personali devo ammettere che le aspettative verso questo lavoro non sono andate deluse. Si tratta di uno studio che ha dietro una struttura solida e presenta un frame work interpretativo delle trasformazioni dello spazio pubblico che potrà, come suggerisce l’autore, essere utilizzato anche quando interverranno inevitabilmente altre modificazioni legate o meno all’avvento di nuove tecnologie.

Al tempo stesso devo ammettere che per chi ha familiarità con il pensiero di danah boyd questo lavoro non presenta grandi novità. L’impostazione iniziale a difesa delle libertà dei teenager nei confronti del mondo degli adulti è sempre fortemente presente e pervade tutto il lavoro. La definizione di networked publics lascia secondo me aperta una contraddizione (fra pubblico come spazio e come audience) che poteva essere facilmente sanata utilizzando due termini diversi per descrivere due cose che sono oggettivamente diverse. Mi piace invece la distinzione fra proprietà tecniche e dinamiche perché offre una collocazione più consona all’idea del pubblico invisibile. Sembra tuttavia che i nuovi elementi introdotti (scalability fra le proprietà , collapsed context e blurring public/private fra le dinamiche) non sono sempre approfonditi con lo stesso dettaglio degli elementi che già l’autore aveva introdotto da tempo.

Per il resto è un lavoro che vale sicuramente la lettura e che non potrà che migliorare grazie all’enorme feedback che di certo riceverà.

Come promesso in dicembre, danah boyd ha pubblicato la sua tesi di dottorato sul suo blog.

Si tratta, come noto, di uno studio etnografico sull’uso che i teenager americani fanno dei siti di social network come MySpace e Facebook. Il documento si compone di poco più di 300 pagine ed è articolato in sette capitoli che definiscono in modo chiaro la struttura del lavoro descritta nel primo capitolo.

Oltre a presentare la struttura del lavoro, questo capitolo introduce anche i principali riferimenti teorici, definisce cosa si intende per giovani nel contesto del lavoro e cosa si intende per pubblici di rete (networked publics).

Dal punto di vista del rapporto fra evoluzione della società e delle tecnologie il lavoro si ispira ad un approccio di tipo Social Construction of Technology. Questo approccio enumera una serie di principi (Relevant social groups, Problems and Conflicts, Interpretive Flexibility, Design Flexibility, Closure adn Stabilization) che ruotano intorno all’idea che il rapporto fra società e tecnologia sia di tipo co-evolutivo ed al conseguente netto rifiuto di ogni prospettiva di determinismo tecnologico. Si tratta di approccio in qualche modo ecologico allo studio del rapporto società/tecnologie che consente di dare conto

Non c’è una vera e propria definizione della categoria di giovani e non c’è una chiara coorte di età individuata teoricamente (anche se dal punto di vista operativo l’autore ha scelto di concentrarsi sulla fascia 13-18 anni). La categoria dei giovani non è definita sulla base dello sviluppo biologico ma piuttosto come costruzione sociale.

Il cuore del lavoro consiste nell’analisi approfondita di tre set di relazioni, nella definizione di pubblici di rete, delle tecniche proprietà che caratterizzano questo spazio e delle dinamiche sociali che emergono. Questa parte contiene alcune interessanti novità rispetto a quanto era stato possibile leggere fino a questo momento negli articoli e sul blog dell’autore.

Neworked Publics è definito in modo duplice a partire dalla generica ed in un certo senso auto-referenziale definizione di “publics that are restructured by network technologies”.

Networked Publics è al tempo stesso un luogo ed un gruppo di individui.

1) è lo spazio costruito dalle tecnologie di rete (“MySpace is like a park”);
2) ed è la comunità immaginata che emerge come risultato delle intersezioni fra le persone, le tecnologie e le pratiche.

La definizione è giocata sull’ambiguità del termine pubblico che può essere usato per definire il tipo di accesso ad uno spazio (public access) o un gruppo di persone che sono testimoni di un evento (public as audience).

[Qui sarebbe interessante capire perché non siano state distinte le due definizioni usando ad esempio “networked space” per la prima]

Lo spazio pubblico di rete è caratterizzato da quattro proprietà tecniche (descritte nel paragrafo 1.5.1.) che non sono nuove nel panorama dei media ma interagiscono in modo inedito.

Le quattro proprietà sono:

  1. persistence
  2. searchability
  3. replicability
  4. scalability

Alcune sono già note e ne ho abbondantemente parlato nelle edizioni precedenti di What’s Next.

A differenza di quanto scritto fino ad ora, l’autore ha sostituito le invidible audiences con la scalability. La scalabilità è definita come la possibilità ma non la garanzia di una enorme visibilità per i contenuti esposti ai pubblici di rete. Questa proprietà consente all’autore di introdurre un riferimento ai pubblici di nicchia ed alla lunga coda. Interessante in questo contesto la precisazione che riguarda la natura dei contenuti che scalano. Contrariamente a quanto si era sperato i contenuti che raggiungono la massima visibilità sono spesso gli stessi che Habermas critica nei suoi lavori in relazione alle audience della comunicazione broadcast.

L’intrecciarsi di queste quattro proprietà tecniche danno origine ad un set di tre dinamiche:

  1. invisible audiences;
  2. collapsed contexts (Meyrowitz);
  3. blurring of public and private.

Il capitolo due descrive invece nel dettaglio e nel contesto degli studi precedenti l’approccio etnografico adottato.

Interessante in questo contesto la critica a Sherry Turkle considerata, forse non a torto, come l’iniziatrice di un filone di pensiero che mette in guardia verso il rischio della frammentazione dell’identità collegato alla comunicazione mediata dal computer. Le conclusioni di danah boyd puntano invece in una direzione sottolineando che le relazioni sociali che si intrattengono online sono il più delle volte una naturale prosecuzione di quelle esistenti fuori dalla rete.

I dati analizzati sono di due tipi: interviste a singoli o coppie (in totale coinvolti 94 teeanagers di 10 Stati) ed informazioni contenute nei profili (layout, foto, descrizioni di sè, etc.) e sono analizzati secondo tre direttrici (set di relazioni) ciascuna approfondite in un capitolo dedicato basato su riferimenti teorici diversi:

  1. self and identity [chapter 4] Goffman impression management;
  2. peer sociality [chapter 5] – Eckert social categories 1989 e Milner status rituals 2004;
  3. parents and adults (power relations) [chapter 6] – Valentine 2004 children access to public spaces.

L’ultimo capitolo è dedicato alle conclusioni personali dell’autore e si articola su tre paragrafi: Lessons from the Everyday Lives of Teens, The Significance of Publics e The Future of Networked Publics. In questi tre paragrafi sono riprese e sviluppate brevemente alcune delle conclusioni che permeano tutto il lavoro e vengono forniti alcuni spunti nuovi.

In Everyday Lives of Teen l’autore mette in luce come le pratiche di costruzione dell’identità e di relazioni fra pari che hanno luogo nei siti di social network non sono di certo una novità e si innestano su dinamiche pre-esistenti. Al tempo stesso lo spazio di rete con le sue proprietà e dinamiche rende esplicite e visibili alcune proprietà delle relazione che erano prima esplicite. Questo innesca “drammi sociali” che pur essendo tipici di quella fascia d’età assumono a volte dei contorni ancora più spigolosi.

Non esiste una particolare attrazione dei giovani verso i social media, è invece il fatto che in questi luoghi si possano incontrare i propri amici che li rendono interessanti. Quando richiesto la maggior parte degli intervistati dichiara di preferire le relazioni di persona a quelle mediate e considerano in genere questa forma di comunicazione come una alternativa da praticare quando gli incontri di persona non sono possibili.

I giovani non sembrano avere una innata capacità che gli consenta di comprendere come navigare i social media e le dinamiche che ne risultano ma stanno imparando a farlo mentre imparano, al tempo stesso, come muoversi nella vista sociale in senso lato. Questo differenzia i giovani dagli adulti che devono invece re-imparare come comportarsi negli spazi di rete.

L’attività svolta dentro i siti di social network è dunque in senso lato formativa a dispetto di quanto invece sia considerata una perdita di tempo da parte dei genitori e degli adulti in generale. Il desiderio dei giovani di sperimentare la socialità fra pari in assenza degli adulti (bedroom culture) è spesso causa di conflitto intergenerazionale. Talvolta questo conflitto sfocia nella demonizzazione tout court di questi spazi spesso descritti dai media come pericolosi. Il ruolo degli adulti sarebbe invece quello di affrontare questi temi ed aiutare i giovani a prendere decisioni che consentano loro di usare questi spazi in chiave positiva.

Nel paragrafo The Significance of Publics, l’autore riprende il tema della partecipazione dei teenagers agli spazi pubblici. Secondo danah boyd queste possibilità di partecipazione sono fortemente ristrette dagli adulti. Gli spazi pubblici (di rete o meno), intesi come contesti dove i giovani possono incontrarsi fra loro ma anche incontrare altri adulti, svolgono tuttavia un ruolo importante come completamento alla socializzazione fra pari. Escludere i giovani da questi spazi non è dunque una buona strategia perché limita gli strumenti che questi ragazzi avranno a disposizione nella transizione al mondo degli adulti e può risultare in una generazione isolata dalla vita politica e dall’impegno sociale.

Infine nel paragrafo intitolato The Future of Networked Publics viene introdotta la tematica del mobile.  L’accesso al pubblico mediato di rete attraverso dispositivi mobili come i cellulari di nuova generazione (reso possibili dalle reti senza fili e le connettività dati a tariffa flat) introduce una nuova proprietà tecnica che danah boyd chiama (dis)locability. Si tratta della proprietà che rende le conversazioni simultaneamente indipendenti dalla posizione fisica ma più profondamente connesse ad essa attraverso le tecnologie locative come il GPS.

Venendo alle mie considerazioni personali devo ammettere che le aspettative verso questo lavoro non sono andate deluse. Si tratta di uno studio che ha dietro una struttura solida e presenta un frame work interpretativo delle trasformazioni dello spazio pubblico che potrà, come suggerisce l’autore, essere utilizzato anche quando interverranno inevitabilmente altre modificazioni legate o meno all’avvento di nuove tecnologie.

Al tempo stesso devo ammettere che per chi ha familiarità con il pensiero di danah boyd questo lavoro non presenta grandi novità. L’impostazione iniziale a difesa delle libertà dei teenager nei confronti del mondo degli adulti è sempre fortemente presente e pervade tutto il lavoro. La definizione di networked publics lascia secondo me aperta una contraddizione (fra pubblico come spazio e come audience) che poteva essere facilmente sanata utilizzando due termini diversi per descrivere due cose che sono oggettivamente diverse. Mi piace invece la distinzione fra proprietà tecniche e dinamiche perché offre una collocazione più consona all’idea del pubblico invisibile. Sembra tuttavia che i nuovi elementi introdotti (scalability fra le proprietà , collapsed context e blurring public/private fra le dinamiche) non sono sempre approfonditi con lo stesso dettaglio degli elementi che già l’autore aveva introdotto da tempo.

Per il resto è un lavoro che vale sicuramente la lettura e che non potrà che migliorare grazie all’enorme feedback che di certo riceverà.

What’s next #16: Social Network Sites Italia

L’ultimo numero della serie What’s Next lancia un’inedita iniziativa di collaborazione legata al primo studio sistematico dell’impatto dei siti di social network in Italia.L’ultimo numero della serie What’s Next lancia un’inedita iniziativa di collaborazione legata al primo studio sistematico dell’impatto dei siti di social network in Italia.L’ultimo numero della serie What’s Next lancia un’inedita iniziativa di collaborazione legata al primo studio sistematico dell’impatto dei siti di social network in Italia.

E siamo così arrivati all’ultima puntata di What’s next.
Con questo post si chiude un ciclo iniziato il 5 settembre 2008 che consta in totale di 16 post usciti con cadenza settimanale (circa… cioè io ci ho provato ma non sempre ci sono riuscito). Per leggere l’intera seria o un post che vi siete persi è sufficiente seguire seguire questo link. Approfitto dell’occasione per ringraziare Thomas Galli che in questi mesi ha cercato ed editato le immagini necessarie a rendere questi post più accattivanti dal punto di vista estetico.
Ma per un’avventura che si chiude ce ne è subito una che si apre.
In questi giorni ho lavorato alacremente alla bozza di un progetto di ricerca al quale tengo molto. Si tratta della naturale evoluzione di un filone delle mie attività di ricerca di cui ho spesso parlato nei post della serie What’s Next.
Social Network Sites Italia è un nuovo spazio di supporto allo sviluppo di un vasto ed ambizioso progetto di ricerca sull’impatto dei siti di social network sulla società italiana.
L’idea è quella promuovere attorno a questo spazio una comunità allargata di ricercatori che possano contribuire tanto alla stesura quanto alla realizzazione del progetto di ricerca.
Il progetto parteciperà al bando di co-finanziamento PRIN 2008 e se approvato darà origine al primo studio sistematico sui siti di social network in Italia.
L’iniziativa è senza precedenti sotto diversi punti di vista:

  1. Che io sappia è la prima volta che un progetto di questo genere viene creato collaborativamente e pubblicamente attraverso il web. Il documento di progetto stesso è disponibile in Social Network Sites Italia ed aperto al commento di tutti. I ricercatori delle unità operative interessate possono inoltre contribuire direttamente attraverso la piattaforma Google Docs;
  2. La metodologia quanti-qualitativa proposta dovrebbe coinvolgere un gruppo molto vasto ed eterogeneo di soggetti (3000 interviste telefoniche e 100 colloqui in profondità) come mai prima d’ora è stato possibile fare in Italia;
  3. Le fasi del progetto, i dati ed i risultati saranno pubblicati in modo puntuale e trasparente nello spazio già creato sotto licenza creative commons;
  4. Il web sarà utilizzato in modo estensivo come piattaforma di collaborazione aperta fra i ricercatori e la vasta comunità di soggetti interessati a comprendere meglio l’impatto sociale di questo fenomeno in Italia.

Il progetto avrà durata biennale e coinvolgerà fino ad un massimo di cinque team di ricerca appartenenti a diversi atenei italiani. Sono state previste forme di collaborazione per diversi soggetti che vanno dal personale strutturato delle università italiane ai dottorandi e laureandi, dalle imprese del settore ai blogger.
Ognuno può contribuire aggiungendo commenti, segnalazioni, parlando del progetto nei blog e social network, collaborando alla traduzione, alle attività di trascrizione e alla gestione degli spazi di collaborazione online della comunità dei ricercatori o facendo una piccola donazione.
Chi vuole può iniziare già adesso partendo da qui.
P.S. Vi ricordo l’appuntamento con lo speciale Out of Context dedicato ad un commento approdondito della tesi di dottorato di danah boyd.

E siamo così arrivati all’ultima puntata di What’s next.

Con questo post si chiude un ciclo iniziato il 5 settembre 2008 che consta in totale di 16 post usciti con cadenza settimanale (circa… cioè io ci ho provato ma non sempre ci sono riuscito). Per leggere l’intera seria o un post che vi siete persi è sufficiente seguire seguire questo link. Approfitto dell’occasione per ringraziare Thomas Galli che in questi mesi ha cercato ed editato le immagini necessarie a rendere questi post più accattivanti dal punto di vista estetico.

Ma per un’avventura che si chiude ce ne è subito una che si apre.

In questi giorni ho lavorato alacremente alla bozza di un progetto di ricerca al quale tengo molto. Si tratta della naturale evoluzione di un filone delle mie attività di ricerca di cui ho spesso parlato nei post della serie What’s Next.

Social Network Sites Italia è un nuovo spazio di supporto allo sviluppo di un vasto ed ambizioso progetto di ricerca sull’impatto dei siti di social network sulla società italiana.

L’idea è quella promuovere attorno a questo spazio una comunità allargata di ricercatori che possano contribuire tanto alla stesura quanto alla realizzazione del progetto di ricerca.

Il progetto parteciperà al bando di co-finanziamento PRIN 2008 e se approvato darà origine al primo studio sistematico sui siti di social network in Italia.

L’iniziativa è senza precedenti sotto diversi punti di vista:

  1. Che io sappia è la prima volta che un progetto di questo genere viene creato collaborativamente e pubblicamente attraverso il web. Il documento di progetto stesso è disponibile in Social Network Sites Italia ed aperto al commento di tutti. I ricercatori delle unità operative interessate possono inoltre contribuire direttamente attraverso la piattaforma Google Docs;
  2. La metodologia quanti-qualitativa proposta dovrebbe coinvolgere un gruppo molto vasto ed eterogeneo di soggetti (3000 interviste telefoniche e 100 colloqui in profondità) come mai prima d’ora è stato possibile fare in Italia;
  3. Le fasi del progetto, i dati ed i risultati saranno pubblicati in modo puntuale e trasparente nello spazio già creato sotto licenza creative commons;
  4. Il web sarà utilizzato in modo estensivo come piattaforma di collaborazione aperta fra i ricercatori e la vasta comunità di soggetti interessati a comprendere meglio l’impatto sociale di questo fenomeno in Italia.

Il progetto avrà durata biennale e coinvolgerà fino ad un massimo di cinque team di ricerca appartenenti a diversi atenei italiani. Sono state previste forme di collaborazione per diversi soggetti che vanno dal personale strutturato delle università italiane ai dottorandi e laureandi, dalle imprese del settore ai blogger.

Ognuno può contribuire aggiungendo commenti, segnalazioni, parlando del progetto nei blog e social network, collaborando alla traduzione, alle attività di trascrizione e alla gestione degli spazi di collaborazione online della comunità dei ricercatori o facendo una piccola donazione.

Chi vuole può iniziare già adesso partendo da qui.

P.S. Vi ricordo l’appuntamento con lo speciale Out of Context dedicato ad un commento approdondito della tesi di dottorato di danah boyd.

E siamo così arrivati all’ultima puntata di What’s next.

Con questo post si chiude un ciclo iniziato il 5 settembre 2008 che consta in totale di 16 post usciti con cadenza settimanale (circa… cioè io ci ho provato ma non sempre ci sono riuscito). Per leggere l’intera seria o un post che vi siete persi è sufficiente seguire seguire questo link. Approfitto dell’occasione per ringraziare Thomas Galli che in questi mesi ha cercato ed editato le immagini necessarie a rendere questi post più accattivanti dal punto di vista estetico.

Ma per un’avventura che si chiude ce ne è subito una che si apre.

In questi giorni ho lavorato alacremente alla bozza di un progetto di ricerca al quale tengo molto. Si tratta della naturale evoluzione di un filone delle mie attività di ricerca di cui ho spesso parlato nei post della serie What’s Next.

Social Network Sites Italia è un nuovo spazio di supporto allo sviluppo di un vasto ed ambizioso progetto di ricerca sull’impatto dei siti di social network sulla società italiana.

L’idea è quella promuovere attorno a questo spazio una comunità allargata di ricercatori che possano contribuire tanto alla stesura quanto alla realizzazione del progetto di ricerca.

Il progetto parteciperà al bando di co-finanziamento PRIN 2008 e se approvato darà origine al primo studio sistematico sui siti di social network in Italia.

L’iniziativa è senza precedenti sotto diversi punti di vista:

  1. Che io sappia è la prima volta che un progetto di questo genere viene creato collaborativamente e pubblicamente attraverso il web. Il documento di progetto stesso è disponibile in Social Network Sites Italia ed aperto al commento di tutti. I ricercatori delle unità operative interessate possono inoltre contribuire direttamente attraverso la piattaforma Google Docs;
  2. La metodologia quanti-qualitativa proposta dovrebbe coinvolgere un gruppo molto vasto ed eterogeneo di soggetti (3000 interviste telefoniche e 100 colloqui in profondità) come mai prima d’ora è stato possibile fare in Italia;
  3. Le fasi del progetto, i dati ed i risultati saranno pubblicati in modo puntuale e trasparente nello spazio già creato sotto licenza creative commons;
  4. Il web sarà utilizzato in modo estensivo come piattaforma di collaborazione aperta fra i ricercatori e la vasta comunità di soggetti interessati a comprendere meglio l’impatto sociale di questo fenomeno in Italia.

Il progetto avrà durata biennale e coinvolgerà fino ad un massimo di cinque team di ricerca appartenenti a diversi atenei italiani. Sono state previste forme di collaborazione per diversi soggetti che vanno dal personale strutturato delle università italiane ai dottorandi e laureandi, dalle imprese del settore ai blogger.

Ognuno può contribuire aggiungendo commenti, segnalazioni, parlando del progetto nei blog e social network, collaborando alla traduzione, alle attività di trascrizione e alla gestione degli spazi di collaborazione online della comunità dei ricercatori o facendo una piccola donazione.

Chi vuole può iniziare già adesso partendo da qui.

P.S. Vi ricordo l’appuntamento con lo speciale Out of Context dedicato ad un commento approdondito della tesi di dottorato di danah boyd.

What’s next #11: Prima e seconda generazione dei siti di social network in Italia

I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.I risultati di una ricerca esplorativa su come gli utenti di Facebook e Badoo in Italia comprendano la distinzione pubblico/privato e gestiscano il proprio capitale sociale.


Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.
La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.
Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.
Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.
A seguire il Venezuela.
Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?
Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.
Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.
Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).
Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).
Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.
A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.
La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.
La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).
Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.
In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.
La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.
Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.
Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.
Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.
Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.
Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

Ho iniziato ad interessarmi seriamente al fenomeno dei siti di social network in Italia verso al fine del 2007 spinto in generale dal grande interesse che registravo esserci sul fenomeno negli Stati Uniti ed in particolare da un post pubblicato sul suo blog di Jill Walker nel quale si annunciava che l’83,5% dei ragazzi norvegesi di un età compresa fra 16 e 19 anni erano su Facebook e si spiegava la semplice procedura attraverso la quale era giunta a questa conclusione.

La prima cosa che ho fatto dopo aver letto il post è stato ovviamente sperimentare la stessa procedura sul pubblico italiano di Facebook. Non senza qualche stupore constatai che nella stessa fascia d’età gli iscritti italiani su Facebook erano lo 0,63% della popolazione.

Ora, anche calcolando una certa arretratezza cronica del nostro paese in fatto di tecnologia, un divario di queste proporzioni rimaneva ai miei occhi piuttosto stupefacente. Il fenomeno è rimasto misterioso fino a quando non ho scoperto un altro sito di social network chiamato Badoo. Pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle percentuali bulgare della Norvegia, calcolai che approssimativamente il 18,32% dei giovani fra 16 e 19 anni aveva un account su Badoo.

Dunque gli italiani non erano su Facebook ma su Badoo. Ed infatti l’Italia, a guardare le ricerche su Google, era la prima nazione al mondo per interesse verso questo sito.

A seguire il Venezuela.

Il Venezuela? Già il Venezuela. Ma cosa hanno in comune Italia e Venezuela? E più in generale perché il successo dei siti di social network, pur essendo tutte piattaforme globali, era così diverso da nazione a nazione? Ed ancora perché in Italia aveva successo proprio Badoo?

Da fine 2007 ho dunque iniziato a monitorare il numero di utenti registrati, il tasso di crescita nel tempo, la distribuzione geografica, il traffico registrato dall’Italia verso questi due siti ed il volume di ricerche effettuato su Google con le chiavi Badoo e Facebook.

Qualche mese dopo ho colto al volo l’opportunità offertami da una sconosciuta collega americana per partecipare ad un panel sui siti di social network nel contesto nazionale con colleghi che presentavano casi di interesse come quelli di Orkut in Brasile, di Cyworld in Corea e di Nasza-Klasa (la nostra classe) in Polonia.

Ho deciso dunque di approfondire il caso di Badoo e Facebook in Italia affiancando all’analisi dei dati quantitativi in mio possesso un questionario online finalizzato ad indagare due specifiche ipotesi relative alla capacità degli utenti dei due sistemi di utilizzare la distinzione pubblico/privato e alla propensione ad utilizzare la piattaforma per conoscere nuove persone o mantenere la relazione con persone già conosciute (una tendenza questa molto evidente nelle ricerche che avevo letto).

Ho così creato un breve questionario ed utilizzato i canali in mio possesso per promuoverlo presso gli utenti di Badoo e di Facebook. All’atto della redazione di questo post il questionario è stato compilato 338 volte (73 utenti di Badoo e 286 di Facebook).

Nel frattempo, come previsto correttamente da Google Trend, Facebook (3.097.360) ha superato Badoo (2.890.268) in Italia in quanto a numero di iscritti.

A più riprese emergono significative differenze fra gli utenti di Facebook e quelli di Badoo.

La prima differenza ci riporta al contesto geografico. Guardando la mappa dell’utilizzo delle parole chiave appare piuttosto evidente che Facebook sia usato prevalentemente al nord mentre Badoo al sud e nella zona umbria/romagna.

La distribuzione delle classi d’età mostra inoltre in modo inequivocabile che la popolazione di Badoo sia molto più giovane di quella di Facebook e, da questo punto di vista, maggiormente in linea con le tendenze degli altri paesi del mondo (anche se l’età media si sta oggi alzando anche altrove).

Rispetto al genere è piuttosto evidente che in Facebook sia confermata la tendenza in atto rilevata da Pew Internet ed altre ricerche che vede le ragazze giovani più interessati dei pari età all’uso dei siti di social network. Evidente anche che lo sbilanciamento della popolazione di Badoo verso il genere maschile.

In relazione alle specifiche ipotesi della ricerca si possono trarre due conclusioni diverse.

La prima conferma una delle ipotesi. In tre diverse domande gli utenti di Badoo e quelli di Facebook si differenziano in modo significativo rispetto alla pratica di usare il sito per conoscere nuove persone (attività molto più diffusa su Badoo) rispetto a mantenere i rapporto con persone che già si conoscono.

Più difficile da verificare l’ipotesi sulla diversa percezione della privacy. Da una parte infatti gli utenti di Badoo mostrano una maggiore fiducia rispetto a quelli di Facebook rispetto alla possibilità di essere identificati sulla base del proprio profilo. Con tutta probabilità questa maggiore fiducia dipende dal fatto che solo in rari casi (29,9% contro il 90 di Facebook) il cognome dell’utente è pubblicato sul sito e dal fatto che almeno nella metà dei casi le informazioni sono sul profilo non sono vere. Al tempo stesso gli utenti di Badoo sembrano in larga parte consapevoli che l’accesso al proprio profilo non è ristretto ai soli “amici” al contrario di quanto avviene quasi sempre su Facebook. In generale è possibile affermare che gli utenti di Badoo abbiano un approccio molto più guardingo nei confronti del sistema. Al contrario Facebook sembra ispirare fiducia perché l’accesso ai proprio contenuti è percepito come limitato ai propri amici.

Questa diversa percezione della privacy si ripercuote con tutta probabilità anche sul senso di comunità ispirato dal sito che è significativamente maggiore nel caso di Facebook rispetto a Badoo.

Non appare dunque possibile una chiara verifica della seconda ipotesi relativa alla differente capacità di utilizzare la distinzione pubblico/privato.

Osservando più in generale lo scenario sembra tuttavia piuttosto chiaro che pur essendo già in una fase di rallentamento rispetto agli ultimi mesi, l’espansione di Facebook in Italia ha ancora margini per avanzare. Potrebbe essere già in corso un fenomeno di migrazione da Badoo a Facebook anche da parte dei giovanissimi ma è molto difficile trovare dati che possano confermare o smentire questa ipotesi.

Quello che mi sento tuttavia di dire con una certa sicurezza è che il fenomeno Facebook in Italia non sarà, almeno di cambiamenti imprevedibili su scala globale, una moda passeggera.

I Ragazzi de Il Cannocchiale / dolmedia hanno fatto come sempre un lavoro straordinario con i video del RomeCamp. Grazie a loro, e alla lungimiranza degli organizzatori Elastic e Digital PR che gli hanno coinvolti, potete rivedere l’intera presentazione della ricerca ed anche una interessante chiacchierata sulla “sociologia dei social network” che abbiamo registrato con gli amici e colleghi Davide Bennato e Tony Siino.

What's next #9: quando le conversazioni dal basso, da sole, non bastano

L’uso efficace di Internet ha contribuito in modo sostanziale al successo di Barack Obama. Anche grazie a Facebook e alla posta elettronica la campagna è stata scandita da tappe che richiedevano la partecipazione rendendola semplice come seguire una ricetta di cucina.L’uso efficace di Internet ha contribuito in modo sostanziale al successo di Barack Obama. Anche grazie a Facebook e alla posta elettronica la campagna è stata scandita da tappe che richiedevano la partecipazione rendendola semplice come seguire una ricetta di cucina.L’uso efficace di Internet ha contribuito in modo sostanziale al successo di Barack Obama. Anche grazie a Facebook e alla posta elettronica la campagna è stata scandita da tappe che richiedevano la partecipazione rendendola semplice come seguire una ricetta di cucina.



Alcuni mesi fa, come molti altri anche in Italia, mi sono iscritto a http://my.barackobama.com.

Non che potessi veramente fare qualcosa di concreto per supportare una causa in cui credevo (le donazioni per i non cittadini USA sono, ad esempio, proibite) quanto piuttosto per osservare più da vicino l’uso che lo staff di Obama ha fatto del suo social network e del web in generale.

Era il 13 luglio e da allora ho ricevuto oltre 90 messaggi di posta elettronica ed updates via Facebook.

A rileggerli oggi tutti insieme pare di assistere ad una straordinaria lezione su come si gestisce una comunità online.

Ogni messaggio inviato ha un mittente ed una firma personale. I mittenti sono David Plouffe, Joe Biden, Michelle Obama, Barack Obama ed occasionalmente altri personaggi che firmano i messaggi e risultano come mittenti nell’inbox (anche se il replay è impostato per tutti a info@barackobama.com).

Ogni messaggio ha un tema chiaro e tutt’altro che generico. Può essere legato al raggiungimento degli obiettivi di auto-finanziamento di fine mese, ad eventi quali il discorso di accettazione della nomination o i dibattiti televisivi (prima e dopo per le reazioni), a rispondere in modo immediato agli spot di McCain, alla disponibilità di nuovi gadget, a sollecitare azioni mirate di volontariato su specifici Stati o questioni.

Make a donation of $5 or more right now to show John McCain and Governor Palin that when they attack us with lies and smears, it literally makes our campaign stronger

Esemplare in questo senso i messaggi che seguivano alle dichiarazioni di McCain contro Obama.

I messaggi che seguivano a questi spot o dichiarazioni erano tutti costruiti sfruttando abilmente la retorica del “lui ha tanti soldi e si può permettere di comprare spot televisivi in cui ci attacca, reagiamo tutti insieme raccogliendo più fondi per avere anche noi i nostri spot”.

Quale che fosse l’oggetto del messaggio l’obiettivo era quasi sempre quello di raccogliere fondi.

Ogni messaggio ha in calce un link: donate. Un link apparentemente sempre uguale ma in realtà sempre diverso perché contiene un codice unico che consente ai gestori del sito di differenziare la provenienza degli accessi. Praticamente in tutti i messaggi c’è, oltre che a questo link in calce, un link in grassetto nel testo che invita a donare 5 o più dollari per un motivo specifico legato all’oggetto del messaggio.

Take a look and make a donation of $5 or more to get it on the air for those who may have missed it

Please donate $5 or more before the deadline to help register voters, get out the vote, and win this election

Make a donation of $5 or more today to help Get Out The Vote in Ohio and other early vote states

Make a donation of $5 or more right now to bring about the change we need

Then make a donation of $5 or more to help keep this ad on the air

The time to make a difference in this election is running out — please make a donation of $5 or more right now

Your donation of $5 or more today is essential to our unprecedented get out the vote operation in these final days

Will you make a donation of $5 or more today and double your impact?

Make a donation of $10 or more and you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

You can decide where we fight — and how strong our team will be. Please make a donation of $5 or more before the deadline

Your first donation of $10 or more will provide resources urgently needed before the deadline. And you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

If you make a donation of $10 or more before the deadline, you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

Make a donation of $10 or more to own a piece of this movement before the final deadline

Will you make a donation of $5 or more before the deadline?

Watch Barack’s closing argument and make a donation of $5 or more to get every vote we need to win.

Take a minute to remember why you joined this movement, then please make a donation of $5 or more today?

Watch Barack’s speech and make your first donation of $5 or more before it’s too late

Make a donation of $5 or more today to expand our efforts in these new battleground states

And if you make a donation of $30 or more today, you’ll also receive a “Change the World” T-shirt

Make a donation of $5 or more right now: Make a donation and you could get a front row seat to history

Nei rari casi in cui il messaggio non invita direttamente a finanziare la campagna con un link in grassetto come questi, c’è sempre e comunque un’azione chiara che viene proposta con un link in grassetto “Host a Last Call for Change house party on Wednesday, October 29th”, “Watch this video and sign up to help get out the vote on Tuesday, November 4th“)

I lunghi mesi che precedevano il 4 novembre sono stati trasformati in una corsa a tappe dove, per mantenere alta l’attenzione, bisognava talvolta inventarsi (come nel caso dei vari gadget messi in vendita mano mano, di alcuni video realizzati ad-hoc e dei concorsi come quello per stare dietro il palco in occasione della nomination) l’evento.

Ovviamente i messaggi di posta elettronica sono solo una piccola parte della campagna. Gli stessi messaggi erano, ad esempio, inviati agli oltre 2 milioni e mezzo di supporter della pagine di Barack Obama su Facebook. L’uso di Facebook e l’integrazione fra questo strumento e gli altri diventerò di certo un caso di studio. Decine di applicazioni sono state realizzate ad-hoc per supportare la registrazione al voto, la ricerca delle informazioni su come e dove votare o, la mia preferita, quella per invitare i ragazzi a parlare con i loro genitori delle elezioni (l’elenco delle cose da fare e da non fare è straordinario e andrebbe letto ed applicato sempre e comunque a prescindere).

Tutto il sistema di messaggi convergeva poi sul sito ufficiale.

Questo sito è stato costruito e gestito magistralmente. In particolare credo che l’Action Center farà scuola e rappresenta molto bene la simbiosi fra mobilitazione dal basso e coordinamento che questa campagna è riuscita a realizzare.

Per ogni azione è stata realizzata una pagina divisa in 4 tab: Getting Started, Before, During, After.

In ogni tab è spiegato in modo chiaro e spesso passo passo cosa fare e come farlo. Mi ricordo di aver letto ad esempio le istruzioni per organizzare una festa in casa per vedere insieme il discorso di accettazione della nomination di agosto che spiegava chi invitare, come farlo, come organizzare la serata quali materiali preparare, distribuire e riconsegnare allo staff di Obama (una guida simile è ancora disponibile nell’organizing resource center).

Il successo di Barack Obama è senza dubbio dovuto alla capacità di usare Internet  in ambito politico come mai prima era stato fatto. Ancora una volta, come nel caso di Wikipedia, un piccolo nucleo di volontari riesce a coordinare, grazie ad un uso accorto della rete, un enorme numero di partecipanti.

Se c’è una cosa che dovremmo imparare è che per passare dalla condivisione all’azione collettiva (per usare il linguaggio di Clay Shirky – il cui ultimo libro sta per uscire in italiano per Codice) l’auto-organizzazione non basta. Come nei BarCamp serve qualcuno che faccia un po’ più degli altri, si assuma maggiori responsabilità e svolga un ruolo di coordinamento affinché tutti gli altri possano partecipare attivamente ed efficacemente all’evento.

Senza i pochi non ci sarebbero i molti e viceversa. Senza Internet non ci sarebbe il collegamento.

La retorica dell’auto-organizzazione pura è una chimera.

Le conversazioni dal basso, da sole, non bastano.

P.S. Il community manager è il mestiere del futuro.

Alcuni mesi fa, come molti altri anche in Italia, mi sono iscritto a http://my.barackobama.com.

Non che potessi veramente fare qualcosa di concreto per supportare una causa in cui credevo (le donazioni per i non cittadini USA sono, ad esempio, proibite) quanto piuttosto per osservare più da vicino l’uso che lo staff di Obama ha fatto del suo social network e del web in generale.

Era il 13 luglio e da allora ho ricevuto oltre 90 messaggi di posta elettronica ed updates via Facebook.

A rileggerli oggi tutti insieme pare di assistere ad una straordinaria lezione su come si gestisce una comunità online.

Ogni messaggio inviato ha un mittente ed una firma personale. I mittenti sono David Plouffe, Joe Biden, Michelle Obama, Barack Obama ed occasionalmente altri personaggi che firmano i messaggi e risultano come mittenti nell’inbox (anche se il replay è impostato per tutti a info@barackobama.com).

Ogni messaggio ha un tema chiaro e tutt’altro che generico. Può essere legato al raggiungimento degli obiettivi di auto-finanziamento di fine mese, ad eventi quali il discorso di accettazione della nomination o i dibattiti televisivi (prima e dopo per le reazioni), a rispondere in modo immediato agli spot di McCain, alla disponibilità di nuovi gadget, a sollecitare azioni mirate di volontariato su specifici Stati o questioni.

Make a donation of $5 or more right now to show John McCain and Governor Palin that when they attack us with lies and smears, it literally makes our campaign stronger

Esemplare in questo senso i messaggi che seguivano alle dichiarazioni di McCain contro Obama.

I messaggi che seguivano a questi spot o dichiarazioni erano tutti costruiti sfruttando abilmente la retorica del “lui ha tanti soldi e si può permettere di comprare spot televisivi in cui ci attacca, reagiamo tutti insieme raccogliendo più fondi per avere anche noi i nostri spot”.

Quale che fosse l’oggetto del messaggio l’obiettivo era quasi sempre quello di raccogliere fondi.

Ogni messaggio ha in calce un link: donate. Un link apparentemente sempre uguale ma in realtà sempre diverso perché contiene un codice unico che consente ai gestori del sito di differenziare la provenienza degli accessi. Praticamente in tutti i messaggi c’è, oltre che a questo link in calce, un link in grassetto nel testo che invita a donare 5 o più dollari per un motivo specifico legato all’oggetto del messaggio.

Take a look and make a donation of $5 or more to get it on the air for those who may have missed it

Please donate $5 or more before the deadline to help register voters, get out the vote, and win this election

Make a donation of $5 or more today to help Get Out The Vote in Ohio and other early vote states

Make a donation of $5 or more right now to bring about the change we need

Then make a donation of $5 or more to help keep this ad on the air

The time to make a difference in this election is running out — please make a donation of $5 or more right now

Your donation of $5 or more today is essential to our unprecedented get out the vote operation in these final days

Will you make a donation of $5 or more today and double your impact?

Make a donation of $10 or more and you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

You can decide where we fight — and how strong our team will be. Please make a donation of $5 or more before the deadline

Your first donation of $10 or more will provide resources urgently needed before the deadline. And you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

If you make a donation of $10 or more before the deadline, you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

Make a donation of $10 or more to own a piece of this movement before the final deadline

Will you make a donation of $5 or more before the deadline?

Watch Barack’s closing argument and make a donation of $5 or more to get every vote we need to win.

Take a minute to remember why you joined this movement, then please make a donation of $5 or more today?

Watch Barack’s speech and make your first donation of $5 or more before it’s too late

Make a donation of $5 or more today to expand our efforts in these new battleground states

And if you make a donation of $30 or more today, you’ll also receive a “Change the World” T-shirt

Make a donation of $5 or more right now: Make a donation and you could get a front row seat to history

Nei rari casi in cui il messaggio non invita direttamente a finanziare la campagna con un link in grassetto come questi, c’è sempre e comunque un’azione chiara che viene proposta con un link in grassetto “Host a Last Call for Change house party on Wednesday, October 29th”, “Watch this video and sign up to help get out the vote on Tuesday, November 4th“)

I lunghi mesi che precedevano il 4 novembre sono stati trasformati in una corsa a tappe dove, per mantenere alta l’attenzione, bisognava talvolta inventarsi (come nel caso dei vari gadget messi in vendita mano mano, di alcuni video realizzati ad-hoc e dei concorsi come quello per stare dietro il palco in occasione della nomination) l’evento.

Ovviamente i messaggi di posta elettronica sono solo una piccola parte della campagna. Gli stessi messaggi erano, ad esempio, inviati agli oltre 2 milioni e mezzo di supporter della pagine di Barack Obama su Facebook. L’uso di Facebook e l’integrazione fra questo strumento e gli altri diventerò di certo un caso di studio. Decine di applicazioni sono state realizzate ad-hoc per supportare la registrazione al voto, la ricerca delle informazioni su come e dove votare o, la mia preferita, quella per invitare i ragazzi a parlare con i loro genitori delle elezioni (l’elenco delle cose da fare e da non fare è straordinario e andrebbe letto ed applicato sempre e comunque a prescindere).

Tutto il sistema di messaggi convergeva poi sul sito ufficiale.

Questo sito è stato costruito e gestito magistralmente. In particolare credo che l’Action Center farà scuola e rappresenta molto bene la simbiosi fra mobilitazione dal basso e coordinamento che questa campagna è riuscita a realizzare.

Per ogni azione è stata realizzata una pagina divisa in 4 tab: Getting Started, Before, During, After.

In ogni tab è spiegato in modo chiaro e spesso passo passo cosa fare e come farlo. Mi ricordo di aver letto ad esempio le istruzioni per organizzare una festa in casa per vedere insieme il discorso di accettazione della nomination di agosto che spiegava chi invitare, come farlo, come organizzare la serata quali materiali preparare, distribuire e riconsegnare allo staff di Obama (una guida simile è ancora disponibile nell’organizing resource center).

Il successo di Barack Obama è senza dubbio dovuto alla capacità di usare Internet  in ambito politico come mai prima era stato fatto. Ancora una volta, come nel caso di Wikipedia, un piccolo nucleo di volontari riesce a coordinare, grazie ad un uso accorto della rete, un enorme numero di partecipanti.

Se c’è una cosa che dovremmo imparare è che per passare dalla condivisione all’azione collettiva (per usare il linguaggio di Clay Shirky – il cui ultimo libro sta per uscire in italiano per Codice) l’auto-organizzazione non basta. Come nei BarCamp serve qualcuno che faccia un po’ più degli altri, si assuma maggiori responsabilità e svolga un ruolo di coordinamento affinché tutti gli altri possano partecipare attivamente ed efficacemente all’evento.

Senza i pochi non ci sarebbero i molti e viceversa. Senza Internet non ci sarebbe il collegamento.

La retorica dell’auto-organizzazione pura è una chimera.

Le conversazioni dal basso, da sole, non bastano.

P.S. Il community manager è il mestiere del futuro.

Alcuni mesi fa, come molti altri anche in Italia, mi sono iscritto a http://my.barackobama.com.

Non che potessi veramente fare qualcosa di concreto per supportare una causa in cui credevo (le donazioni per i non cittadini USA sono, ad esempio, proibite) quanto piuttosto per osservare più da vicino l’uso che lo staff di Obama ha fatto del suo social network e del web in generale.

Era il 13 luglio e da allora ho ricevuto oltre 90 messaggi di posta elettronica ed updates via Facebook.

A rileggerli oggi tutti insieme pare di assistere ad una straordinaria lezione su come si gestisce una comunità online.

Ogni messaggio inviato ha un mittente ed una firma personale. I mittenti sono David Plouffe, Joe Biden, Michelle Obama, Barack Obama ed occasionalmente altri personaggi che firmano i messaggi e risultano come mittenti nell’inbox (anche se il replay è impostato per tutti a info@barackobama.com).

Ogni messaggio ha un tema chiaro e tutt’altro che generico. Può essere legato al raggiungimento degli obiettivi di auto-finanziamento di fine mese, ad eventi quali il discorso di accettazione della nomination o i dibattiti televisivi (prima e dopo per le reazioni), a rispondere in modo immediato agli spot di McCain, alla disponibilità di nuovi gadget, a sollecitare azioni mirate di volontariato su specifici Stati o questioni.

Make a donation of $5 or more right now to show John McCain and Governor Palin that when they attack us with lies and smears, it literally makes our campaign stronger

Esemplare in questo senso i messaggi che seguivano alle dichiarazioni di McCain contro Obama.

I messaggi che seguivano a questi spot o dichiarazioni erano tutti costruiti sfruttando abilmente la retorica del “lui ha tanti soldi e si può permettere di comprare spot televisivi in cui ci attacca, reagiamo tutti insieme raccogliendo più fondi per avere anche noi i nostri spot”.

Quale che fosse l’oggetto del messaggio l’obiettivo era quasi sempre quello di raccogliere fondi.

Ogni messaggio ha in calce un link: donate. Un link apparentemente sempre uguale ma in realtà sempre diverso perché contiene un codice unico che consente ai gestori del sito di differenziare la provenienza degli accessi. Praticamente in tutti i messaggi c’è, oltre che a questo link in calce, un link in grassetto nel testo che invita a donare 5 o più dollari per un motivo specifico legato all’oggetto del messaggio.

Take a look and make a donation of $5 or more to get it on the air for those who may have missed it

Please donate $5 or more before the deadline to help register voters, get out the vote, and win this election

Make a donation of $5 or more today to help Get Out The Vote in Ohio and other early vote states

Make a donation of $5 or more right now to bring about the change we need

Then make a donation of $5 or more to help keep this ad on the air

The time to make a difference in this election is running out — please make a donation of $5 or more right now

Your donation of $5 or more today is essential to our unprecedented get out the vote operation in these final days

Will you make a donation of $5 or more today and double your impact?

Make a donation of $10 or more and you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

You can decide where we fight — and how strong our team will be. Please make a donation of $5 or more before the deadline

Your first donation of $10 or more will provide resources urgently needed before the deadline. And you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

If you make a donation of $10 or more before the deadline, you’ll receive a limited edition Obama-Biden car magnet

Make a donation of $10 or more to own a piece of this movement before the final deadline

Will you make a donation of $5 or more before the deadline?

Watch Barack’s closing argument and make a donation of $5 or more to get every vote we need to win.

Take a minute to remember why you joined this movement, then please make a donation of $5 or more today?

Watch Barack’s speech and make your first donation of $5 or more before it’s too late

Make a donation of $5 or more today to expand our efforts in these new battleground states

And if you make a donation of $30 or more today, you’ll also receive a “Change the World” T-shirt

Make a donation of $5 or more right now: Make a donation and you could get a front row seat to history

Nei rari casi in cui il messaggio non invita direttamente a finanziare la campagna con un link in grassetto come questi, c’è sempre e comunque un’azione chiara che viene proposta con un link in grassetto “Host a Last Call for Change house party on Wednesday, October 29th”, “Watch this video and sign up to help get out the vote on Tuesday, November 4th“)

I lunghi mesi che precedevano il 4 novembre sono stati trasformati in una corsa a tappe dove, per mantenere alta l’attenzione, bisognava talvolta inventarsi (come nel caso dei vari gadget messi in vendita mano mano, di alcuni video realizzati ad-hoc e dei concorsi come quello per stare dietro il palco in occasione della nomination) l’evento.

Ovviamente i messaggi di posta elettronica sono solo una piccola parte della campagna. Gli stessi messaggi erano, ad esempio, inviati agli oltre 2 milioni e mezzo di supporter della pagine di Barack Obama su Facebook. L’uso di Facebook e l’integrazione fra questo strumento e gli altri diventerò di certo un caso di studio. Decine di applicazioni sono state realizzate ad-hoc per supportare la registrazione al voto, la ricerca delle informazioni su come e dove votare o, la mia preferita, quella per invitare i ragazzi a parlare con i loro genitori delle elezioni (l’elenco delle cose da fare e da non fare è straordinario e andrebbe letto ed applicato sempre e comunque a prescindere).

Tutto il sistema di messaggi convergeva poi sul sito ufficiale.

Questo sito è stato costruito e gestito magistralmente. In particolare credo che l’Action Center farà scuola e rappresenta molto bene la simbiosi fra mobilitazione dal basso e coordinamento che questa campagna è riuscita a realizzare.

Per ogni azione è stata realizzata una pagina divisa in 4 tab: Getting Started, Before, During, After.

In ogni tab è spiegato in modo chiaro e spesso passo passo cosa fare e come farlo. Mi ricordo di aver letto ad esempio le istruzioni per organizzare una festa in casa per vedere insieme il discorso di accettazione della nomination di agosto che spiegava chi invitare, come farlo, come organizzare la serata quali materiali preparare, distribuire e riconsegnare allo staff di Obama (una guida simile è ancora disponibile nell’organizing resource center).

Il successo di Barack Obama è senza dubbio dovuto alla capacità di usare Internet  in ambito politico come mai prima era stato fatto. Ancora una volta, come nel caso di Wikipedia, un piccolo nucleo di volontari riesce a coordinare, grazie ad un uso accorto della rete, un enorme numero di partecipanti.

Se c’è una cosa che dovremmo imparare è che per passare dalla condivisione all’azione collettiva (per usare il linguaggio di Clay Shirky – il cui ultimo libro sta per uscire in italiano per Codice) l’auto-organizzazione non basta. Come nei BarCamp serve qualcuno che faccia un po’ più degli altri, si assuma maggiori responsabilità e svolga un ruolo di coordinamento affinché tutti gli altri possano partecipare attivamente ed efficacemente all’evento.

Senza i pochi non ci sarebbero i molti e viceversa. Senza Internet non ci sarebbe il collegamento.

La retorica dell’auto-organizzazione pura è una chimera.

Le conversazioni dal basso, da sole, non bastano.

P.S. Il community manager è il mestiere del futuro.