Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.

Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…
based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.
Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.
Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.
Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…
based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.
Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.
Negli ultimi giorni si fa un gran parlare della privacy su Facebook. Negli Stati Uniti è in corso una vera e propria campagna che critica duramente le ultime scelte in materia di privacy del sito di social network più popolare al mondo spingendosi fino a chiedere esplicitamente una regolamentazione governativa alla fornitura del servizio (come avviene per l’acqua, il gas, l’accesso alla rete telefonica, etc).
Nel corso del 2009 Facebook ha realizzato di avere un problema.
Le tendenze in termini di numero di utenti e di traffico verso il sito erano in crescita ma il fatto che moltissima parte dei contenuti generati dagli utenti sul network fossero visibili solo ad una cerchia ristretta di altri utenti, ne limitava fortemente le possibilità di sfruttamento commerciale (non è possibile per esempio costruire un motore di ricerca che restituisca tutte le conversazioni che avvengono su un certo brand o prodotto). Per questo motivo all’inizio di dicembre 2009 il fondatore Mark Zuckerberg annunciava in una lettera aperta un radicale cambiamento nel sistema di gestione della privacy. Impostazioni ri-organizzate, più chiare e semplici da usare con in più la possibilità di scegliere a chi mostrare ogni singolo post.
Un bel giorno, dunque, ogni utente di Facebook si è trovato davanti una finestra (lo strumento di transizione) che chiedeva di scegliere cosa rendere accessibile a chi. Per aiutare l’utente a scegliere, alcune impostazioni di questa finestra erano pre-impostate. Se avevi già modificato in passato le tue impostazioni di privacy Facebook ti suggeriva di mantenerle, se invece non le avevi mai impostate Facebook proponeva alcune scelte…
based on how lots of people are sharing information today.
For example, we’ll be recommending that you make available to everyone a limited set of information that helps people find and connect with you, information like “About Me” and where you work or go to school. For more sensitive information, like photos and videos in which you’ve been tagged and your phone number, we’ll be recommending a more restrictive setting.
Fra queste scelte, guarda caso, c’era quella di rendere pubblici i contenuti postati ovvero gli status update, i like, le foto i video e le note. Secondo dati diffusi da Facebook stessa, il 65% degli utenti che non avevano mai cambiato le loro impostazioni di privacy hanno accettato le impostazioni suggerite rendendo dunque pubblici i contenuti pubblicati. Una volta pubblici questi contenuti possono essere aggregati in pagine come questa o ricercate in motori di ricerca (anche esterni a Facebook) come questo.
Lascio giudicare voi sull’eticità di questo comportamento. Purtroppo si tratta di una regola e non di un’eccezione. Per Facebook è vitale spingere gli utenti a rendere quanti più contenuti possibile pubblici e proverà in ogni modo a farlo. Al tempo stesso Zuckerberg sa bene, anche quando dichiara che l’era della privacy è finita, che chi usa Facebook lo fa perché ha la sensazione di poter scegliere cosa condividere con chi. Per questo motivo il movimento verso il tutto pubblico di default è lento ma costante come mostrano in modo molto chiaro questi grafici (per inciso penso che alcune cose, l’autore di questi grafici, se le sia un po’ inventate però da comunque un’idea di ciò che è successo) ma non è accompagnato da una parallela scomparsa delle impostazioni che consentono di decidere cosa condividere con chi. Anzi è indubbio che queste impostazioni siano state nel tempo potenziate.
Ovviamente tutto è migliorabile e criticabile. Il documento che spiega la privacy in Facebook è più lungo della costituzione americana e le impostazioni di privacy talmente dettagliate da creare una babele di possibilità e possibili combinazioni difficile da comprendere e da gestire. Bisogna però ammettere che gestire uno spazio sociale frequentato da 400 milioni di utenti di tutto il mondo con esigenze che cambiano nel tempo e reazioni all’introduzione di nuove funzionalità mai del tutto prevedibili è un compito non facile. Inoltre la complessità delle esigenze di privacy è intrinseca. Semmai si può pensare che se fosse ri-progettata da zero beneficerebbe di un design più funzionale ma la complessità resterebbe.
Purtroppo non esiste al momento una possibilità alternativa a Facebook sia per il numero di nostri amici che utilizzano questo strumento, sia per la raffinatezza dei controlli di privacy che rende disponibili. Una alternativa aperta e non proprietaria è tecnicamente possibile ed auspicabile (anzi c’è già chi è riuscito argutamente a raccogliere qualche centinaio di migliaio di dollari intorno a questa idea ). A oggi Facebook agisce di fatto in un regime di monopolio.
L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna (o movimento di opinione pubblica che dir si voglia) è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince.
Comprendo perfettamente i rischi insiti nell’idea della trasparenza radicale. Intendiamoci, la possibilità di postare qualcosa su Internet e fare in modo che questa sia esposta a tutto il mondo fa parte delle potenzialità straordinarie della rete. Ci sono ottimi motivi per desiderare la massima esposizione possibile: se voglio promuovere un brand, se desidero promuovere le mie idee, etc. Non condivido quanto dice Scoble sul reboot della privacy, ma è utile leggerlo per comprendere il lato buono del “tutto pubblico”. Ma se sei un teenager o un dissidente di una dittatura la tua prospettiva è molto diversa. Si tratta di estremi opposti e ogni utente di Internet dovrebbe essere messo in grado di scegliere cosa mostrare a chi.
Facebook, che ci piaccia o no, fa esattamente questo.









